Una porta lignea intagliata e scolpita che simboleggia la fertilità, maschere nuziali colorate e madri longilinee e allungate: è l’arte africana del Mali, del Camerun e della Costa d’Avorio del periodo tra il XVIII e il XX secolo ad accogliere il visitatore nello spazio di
Divina Creatura, la mostra curata da Roberta Vanali.
Quell’arte “primitiva” e “spontanea” che all’inizio del secolo scorso affascinò
Picasso e
Matisse, i cubisti e gli espressionisti, come prodotto di un’anima collettiva libera dai vincoli della civiltà moderna, segna l’inizio di un percorso espositivo che ruota intorno alla rappresentazione della figura femminile e della sua identità.
Un percorso ritagliato interamente all’interno delle collezioni private isolane – ben sessantasette opere di scultura, grafica e pittura – che restituiscono una sorprendente varietà di declinazioni di quel mito arcaico e transculturale che è l’archetipo della “Grande Madre”, protettiva, possente, creatrice. E alle grandi madri senza tempo rimanda quella di
Costantino Nivola, che con la sua ieraticità introduce il visitatore nella sala successiva, vero punto d’incontro fra la sculture lignee africane e le madri della tradizione occidentale, che “sfilano” in successione solo spaziale, mai cronologica, quasi a riprova dell’atemporalità della figura femminile, nonostante il divenire storico.
Sono le madri di
Pinuccio Sciola, materiche e poderose, che pur di piccole dimensioni si stagliano decise e forti; le prefiche di
Gomez, silenziose e minute, e insieme tragiche; le colorate bagnanti di
Foiso Fois. Opere che affondano nel mito della Grande Madre, un mito che ha continuato a
riprodursi nonostante le trasformazioni avviate dal processo di emancipazione femminile del secolo scorso.
Sono le opere degli artisti più giovani a prendere atto di questa evoluzione della figura e dell’identità femminile, soffermandosi su quegli aspetti che, pur presenti nel mito – come le tenebre, l’abisso, l’incerto -, spesso hanno trovato meno spazio nella rappresentazione. Così
Giuliano Sale,
Silvia Argiolas,
Alessio Onnis, insieme a
Veronica Gambula,
Monica Lugas,
Giorgia Atzeni e
Cristina Madau, esplorano quella dimensione soggettiva e concreta del femminile che il Novecento ha portato alla ribalta, spesso nella sua accezione negativa, capovolgendo il mito della Grande Madre nello stereotipo delle “cattive” madri. Le figure universali cedono il passo a figure concrete e particolari: sono donne sole e visi angosciati che evocano la difficoltà e la contraddittorietà che caratterizzano oggi l’identità femminile, non necessariamente materna.
A chiudere il viaggio, alcune opere astratte che approdano al tema della mostra attraverso quello della rigenerazione: libero da qualsiasi riferimento al corpo e alle sue funzioni, diventa puramente ancestrale e simbolico. Sono le grandi tele di
Rosanna Rossi e
Salvatore Garau, o i totem lignei di
Simone Dulcis, che dalla parte opposta della sala sembrano dialogare senza difficoltà alcuna con le madri africane dalle sembianze giacomettiane.