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La comparsa è una figura decisamente sottovalutata nel cinema”, recita
Mark Lewis (Hamilton, 1958; vive a Londra) nel suo monologo, sollevando la testa in direzione della macchina da presa. Dalla massima apertura di campo, l’inquadratura, allontanandosi progressivamente, concede alle comparse – consapevoli o meno – di divenire protagoniste, catturando l’attenzione dello spettatore.
Si tratta dell’ormai celebre
The Pitch, che apre il percorso della prima antologica nazionale dedicata al rappresentante del Canada alla 53. Biennale. Film spartiacque, che segna il passaggio a una metodologia cinematografica coadiuvata da una serie di costanti, come la ripresa continua priva di montaggio, la durata standard di circa quattro minuti e la rigorosa mancanza di banda sonora.
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Quando il film è stato inventato non era muto, era solo film. Non aveva alcun suono. Il sonoro è stato aggiunto in seguito. I primi film erano semplicemente lo scorrere di silenziose fotografie di vita quotidiana”, sostiene Lewis, che professa un ritorno al cinema delle origini, con un occhio di riguardo alle vedute dei fratelli
Lumière, successivo all’esordio che si apre all’insegna del cinema industriale per approdare, in tempi più recenti, a una sorta di pittorialismo. Privi di esplicita narrazione, i film di Lewis s’interrogano sugli aspetti “cinematografici” della realtà quotidiana, alterata dalle tecnologie nella sua percezione spaziale e temporale.
Proprio dal rapporto ambiguo tra realtà e percezione scaturisce
Central, manifesto dell’incomunicabilità dove solo in un secondo momento s’intuisce che il dialogo dei protagonisti – apparentemente uno di fronte all’altra – è frutto del riflesso di uno specchio. Utilizza invece la retroproiezione per montare un effetto di dissociazione tra sfondo e primo piano in
Rear Projection e giungere a una
ghost image.
North Circular segna, invece, una fase di transizione che si avvia alla fascinazione estetica. Un lento zoom della periferia londinese penetra all’interno di un palazzo fatiscente, sino a focalizzare una trottola che gira su un tavolo, determinando uno “slittamento ottico” per il passaggio dal piano d’insieme al primo piano.
Raggiunge l’estetica del sublime con
September, culmine del pittorialismo, con l’unificazione dello spazio attraverso la dissolvenza delle forme che connotano un’atmosfera inquietante, dove luce e oscurità si fondono. E se
September non può non ricordare
L’Isola dei morti di
Böcklin,
Early March è la trasposizione video delle conifere di
Friedrich. Imponenti cime di pini che salgono a occupare progressivamente l’inquadratura e a stagliarsi su un fondale che si rivela innevato soltanto alla fine del cortometraggio. E, ancora, segue una donna delle pulizie che si sposta avanti e indietro in un interno alla
Hopper, in
Smithfield. Primo film di Lewis con la macchina da presa in costante movimento e che improvvisamente si ribalta in
Harper Road, creando disorientamento, così come in
Cheapside, dov’è puntata direttamente al suolo per catturare le ombre in movimento dei passanti.
Una mostra importante e coraggiosa, quella del Man, che celebra Mark Lewis, sperimentatore e decostruttore del linguaggio cinematografico, ossessionato dall’analisi del dettaglio attraverso insoliti movimenti della macchina da presa. Che gioca a incuriosire e spiazzare nel decifrare l’ambiguità e l’alienazione dell‘esistenza.