Al pari dell’arte, l’artigianato in Sardegna attraversa un momento cruciale: a parte l’inevitabile kitsch che avanza, la globalizzazione implica la fine d’ogni regionalismo deteriore, in un clima sempre più favorevole al confronto, ma anche la scomparsa di esperienze importanti seppur fragili e l’appiattimento crescente su standard internazionali.
La mostra
Domo, titolo dato alla XIX Biennale dell’Artigianato sardo, rappresenta una tappa di questo processo e il non facile tentativo di gettare un ponte fra l’irripetibile stagione dell’Isola (ente regionale attivo dal 1957 al 2006) e il futuro. Pesa ancora l’eredità di
Eugenio Tavolara e
Ubaldo Badas, tra gli anni ‘50 e ‘60 alla testa di un movimento di rinnovamento dagli effetti ben più ampi dei ristretti confini settoriali e regionali, capace di creare opportunità di sviluppo e un’inedita immagine della Sardegna.
Ieri come oggi, al tempo del design democratico e sottocosto, l’artigianato sardo si trova al centro di questioni non solo e non tanto di estetica e funzionalità, quanto d’identità, mercato e, in definitiva, politica. Il tutto però in un quadro fortemente mutato, in cui il marchio di sardità non giustifica più costi insostenibili e non necessariamente assicura l’originalità cercata dall’acquirente (che dell’originalità ha poi spesso un’idea distorta).
Il bando della Regione Sardegna alla base della mostra prevedeva la collaborazione tra designer e artigiani in dodici settori, per realizzare almeno 150 manufatti con elementi stilistici coerenti con la tradizione. Consegna che, se attribuiva il giusto riconoscimento a una figura di artigiano ormai affrancatasi dalla pura esecuzione materiale, restava vaga in merito all’interpretazione della tradizione stessa. Tanto da generare esiti molto diversi, non sempre pienamente riusciti.
Si passa infatti dalla ripresa più o meno avvertita di iconografia, lavorazioni e materiali tipici, alla distillazione di forme assolutamente slegate dal contesto. I risultati più convincenti sono allora quelli in cui la tradizione non si ferma allo stadio di citazione né scompare del tutto, ma prende vita in nuove configurazioni, come nei coltelli di
Antonio Fogarizzu, nei cestini di
Annalisa Cocco per Antonello Utzeri o nelle fiasche di
Salvatore + Marie per Valeria Tola, oggetti mirabilmente sospesi fra uso e astrazione. O laddove la forma raggiunge la semplicità dell’archetipo, ricollegandosi a un immaginario popolare che varca i confini regionali, pur abitandoli (chi non ha pensato a
su pitale per il servizio di
Paolo Ulian per Giovanni Deidda?).
Ora, se il fare è ben presente, anche grazie ai materiali audiovisivi sulle realtà coinvolte, promozione e vendita, così come plausibilità di determinate produzioni, rimangono in ombra. Quale pubblico/target per il nuovo artigianato-design sardo? Per dirla con
Enzo Mari: “
Con orizzonte del globale si intende non solo una curiosità appassionante per tutte le valenze estetiche ma anche per ciò che influisce e condiziona tutti gli aspetti della vita materiale: ciò che si fa, come si promuove, come si vende”.
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Finalmente si da un po' di importanza all'Artigianato Sardo, fin'ora rinchiuso nella nostra bellissima isola e ignorato persino da chi dovrebbe fare di tutto per farlo conoscere al mondo intero!