26 luglio 2010

Corri in edicola! E’ uscito Exibart.onpaper…

 

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[26|07|2010] |||arte contemporanea/editoria

Corri in edicola! E’ uscito Exibart.onpaper…
 

  
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DOVE TROVARLO
Nei soliti punti di distribuzione, in ulteriori punti lungo le nostre meravigliose coste, nei locali più gusti e, ormai questo è il secondo numero, in edicola. E ne approfittiamo per ringraziare tutti i lettori per il successo che hanno tributato al nostro primo esperimento di questo tipo. Le vendite hanno superato tutte le nostre aspettative e lo scorso numero è andato letteralmente a ruba nelle edicole di tutta Italia. Regalate lo stesso successo anche a questo!

I CONTENUTI
Un numero incredibilmente ricco, altro che edizione balneare. Mentre altre riviste o saltano direttamente la stagione estiva o sfornano numeri light, Exibart propone una uscita corposa e tutta da leggere. Magari sotto l’ombrellone. Qualche spunto? Nella sezioen “Inteoria” diretta da Christian Caliandro, una netta stroncatura di Paul McCarthy ormai incapace di essere scandaloso. Più avanti un parallelo -una sorta di intervista doppia- tra due critici d’arte italiani che stanno avendo successo all’estero: Lorenzo Fusi, direttore della biennale di Liverpool, e Massimiliano Gioni, a capo di quella di Gwangju. Dopo esservi letti una stroncatura netta al Maxxi vergata dal critico d’architettura Luigi Prestinenzaa Puglisi -eh mica si può sempre e solo parlarne bene!- passerete ad un ampio e profondo approfondimento sulla città di Buenos Aires, una delle mete assolute della creatività oggi, scandagliata dal nostro Luca Arnaudo inviato appositamente in Sudamerica. Di “monumenti” parla Ginevra Brina, in un piccolo saggio che ha lanciato il dibattito sul tema, ovviamente sulla scorta della Biennale di Carrara che ha tolto il velo a questo argomento. E poi ancora tutto l’Hangar Bicocca, una intervista al manager Massimo Maggio che racconta di una nuova società che offre una certificazione ufficiale sul valore delle opere d’arte. Libri, design, cinema e editoria affollano le pagine successive e accompagnano alla sfiziosa rubrica sulle foto rubate agli art party ed ai vernissage…

L’EDITORIALE

Un manipolo di cassintegrati che difendono il loro diritto a lavorare barricandosi, giorno e notte, su un isolotto deserto della loro Sardegna. Impegno civile, reazione alla crisi, scherno delle pantomime televisive stile Isola dei Famosi. Tutto bene, dunque? Neanche un po’. Protestando così decisamente per ottenere il privilegio di tornare alla catena di montaggio della loro industria petrolchimica, quegli operai sono la rappresentazione plastica di un paese che ha smarrito la capacità di leggere se stesso, di figurarsi il proprio sviluppo, di concentrarsi sulle sue caratteristiche migliori e valorizzarle. La Sardegna, ci perdonerete la banalità di queste affermazioni, potrebbe campare di arte, cultura, paesaggio, territorio e gastronomia.
E potrebbe farlo alla grande, dando da vivere a tutti i suoi abitanti e producendo ricchezza, posti di lavoro, qualità e benefici per una terra dalle sconfinate potenzialità. Una terra, tuttavia, dove si boccia la costruzione di un centro d’arte contemporanea (il Betile di Cagliari, disegnato da Zaha Hadid) mentre si fanno vertenze sindacali per salvare decotte industrie chimiche o siderurgiche. Una scena difficile anche solo da credere, se guardata da fuori. Dei cittadini che hanno la fortuna di vivere in un territorio baciato dalla sorte, che hanno la possibilità di starsene nel comparto lavorativo del momento guadagnandosi da vivere senza problemi tra agriturismi, ristoranti, musei, ferrovie dismesse da far ripartire e miniere abbandonate da trasformare in resort, cosa fanno invece? Lottano con tutte le forze per tornare in catena di montaggio a mille euro al mese! Quando gli vien fatta notare l’anomalia urlano che sì, che è vero che la loro terra potrebbe campar di rendita, ma loro “non vogliono cambiare lavoro”.
E così dicendo personificano la schizofrenia di un paese che, mentre tutto cambia, rinuncia ad adeguarsi, spesso proprio non vuole adeguarsi, anche se converrebbe. Si chiama pigrizia intellettuale ed è una malattia mortale. Un paese che sarebbe anche in grado di camminare, ma non ha più gli occhi, la preparazione, la cultura, le competenze e la lucidità per scegliere direzioni e obiettivi verso cui muoversi.
Un paese che compie sforzi sovrumani per fare la chimica, dove sarebbe proficuo fare cultura. E per fare cultura dove sarebbe assai meglio fare chimica. (m. t.)

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