Molte buone ragioni per realizzare qualcosa di impossibile…
Venerdì 28 giugno 2019, ore 17:00
Spazio46 di Palazzo Ducale
Piazza Giacomo Matteotti, 9 GENOVA
artcommissionevents.spazio46@gmail.com
+ 39 0108986052
Intervengono:
Paolo BENSI, Docente di Storia delle Tecniche Pittoriche, Dipartimento di Architettura e Design, Università di Genova;
Sandro RICALDONE, Critico d’Arte e Direttore di Entr’acte;
Marco ALMAVIVA, Artista.
Focus on canvas. Un’iniziativa che si presenta in termini interlocutori, laddove la questione di fondo sembra tutta dipendere dalla risposta ad un quesito: “perché, dopo oltre 70 anni dalla nascita dello Spazialismo, ha senso realizzare un “olio su tela”, senza la tela su cui dipingere”? Ma da dove nasce, nello specifico, l’esigenza di una riflessione di questo genere?
La questione nasce nel “lontano” 1965 a Milano, quando Giorgio Kaisserlian nel difendere le ragioni dello Spazialismo di fronte ad un gruppo di artisti riuniti al Bar Gabriele, evidenziò il carattere dirimente dell’atto di Fontana nei confronti del tradizionale modo di fare arte. Tutto partiva dalla tela, sentita come ostacolo da superare per procedere verso l’infinito, e la conseguente realizzazione, il buco, il taglio come gesto che si concretizzava nella forma-tela, al di là della pittura e della scultura. Era la stessa dinamica dell’innovazione che implicava, e il riferimento andava alle “Attese”, il superamento perentorio del tradizionale modo di concepire l’arte, ad iniziare da una delle sue premesse più scontate, la tela come supporto piano entro cui l’artista organizza il proprio lavoro. Si trattava dell’azzeramento della pittura: dal 1958, quanto meno, i pittori erano rimasti tutti senza tela come se questa fosse stata requisita e posta in un luogo inaccessibile.
Forse si tratta di una metafora non così impegnativa, anche perché sul piano “reale” è stata costantemente smentita dalla prassi ricorrente di artisti che, a vari livelli, continuano a dipingere?
Ma proprio perché la questione ha assunto anche la forma della metafora questa, inevitabilmente, rimanda alla sua implicita struttura logica. È chiaro che soggettivamente si è liberi di continuare a dipingere perché le tele fisicamente ci sono, diverse però sono le implicazioni che ne derivano quando si accetta il principio dell’innovazione e, nel caso specifico, le condizioni poste da Kaisserlian e Fontana. Queste si precisano proprio come un’interdizione, per la quale non avrebbe avuto senso pensare di fare dell’arte a partire dal presupposto tradizionale della tela. E se l’arte si pone come innovazione, era necessario riconoscere e confrontarsi con questo dato fondamentale. Tant’è che in quella stessa circostanza emerse l’eventualità paradossale del dipinto, e in particolare, dell’olio su tela senza disporre della tela su cui dipingere. Ciò interveniva a completare il senso della cesura che la soluzione di Fontana aveva prodotto e, congiuntamente, i margini estremamente angusti per ogni ulteriore tentativo di superare la situazione in atto.
Dunque si tratta di rinunciare di fatto a nuove ricerche, se si prefigurano condizioni estremamente restrittive?
Non esattamente. Il concetto-limite precisa il senso e la consapevolezza della stessa ricerca a partire da un contesto determinato. Prendere atto della indisponibilità della tela può configurarsi in diversi modi. Il più evidente è quello che procede nel senso della smaterializzazione/concettualizzazione del fatto d’arte, puntando tutto sulle “proprietà non esibite” dell’opera, ma con le implicazioni, ormai note, che portano alla mancanza dell’«effettività» della proposta artistica, mancando il manufatto. Diversamente si possono riconsiderare i paradigmi che, a livello di poetica, costituiscono il presupposto normativo dell’operare dell’artista in modo tale da superare, attraverso una deroga, l’interdizione in atto – con il rischio di caratterizzarsi come un tentativo elusorio che suonerebbe pressappoco in questo modo: “malgrado tutto, la mia clausola di salvaguardia mi permette di continuare a dipingere”. Ma bisogna riconoscere che la forza semantica di una nuova proposta non sta nell’elusione dei vincoli, ma sull’accettazione di condizioni e premesse restrittive con le quali si devono fare i conti.
Quali, allora, le conclusioni?
Un range molto limitato di possibilità ha portato tra il 1947 e il 1958 alla forma-tela e alla correlata idea limite di un dipinto senza disporre della tela. Ora si tratta di superare questo ulteriore limite: realizzare un esemplare che costituisca, nella sua fisicità di manufatto, un “olio su tela” senza la necessaria premessa della tela su cui dipingere. Alla luce di questo obiettivo, ogni consapevole tentativo di confrontarsi con il limite, ed eventualmente cercare di superarlo, è una buona ragione per cercare di realizzare ciò che è ritenuto impossibile. Ci sono, dunque, molte e buone ragioni per concretizzare qualcosa di impossibile.