La pittura è alla base dell’identità dell’immagine fotografica: lo confermano quarantadue opere scelte con cura da Jeff Wall (Vancouver 1946). Invitato alla Documenta di Kassel 11 e 12 e, prima ancora, alla Biennale di Venezia (2001), dopo una importante retrospettiva al MoMA di New York (2007), l’autore è entrato nell’olimpo delle star dell’arte a livello internazionale. Wall è indefinibile, lavora intorno all’immagine, ispirandosi al cinema, alla pittura, il teatro, la pubblicità all’insegna dell’ambiguità percettiva, noto per avere intuito le potenzialità della manipolazione digitale nella fotografia e per l’uso di light box (immagini retroilluminate inserite in scatole di metallo o legno) prima di molti altri autori.
Al Pac di Milano, è in corso la prima e imperdibile retrospettiva italiana del fotografo canadese che ha studiato storia dell’arte al Courtauld Institute a Londra, docente in varie università canadesi e teorico di saggi critici, come rivela il suo libro Gestus-Scritti sull’arte e la fotografia (a cura di Stefano Graziani). Wall, è riconoscibile per immagini di un finto realismo, unico nelle sue misees-en-scenes, light box e stampa su carta per lo più di grande formato, disposte magistralmente nel razionalissimo padiglione disegnato da Ignazio Gardella.
La citazione è il suo linguaggio, ogni dettaglio realistico si trasforma in un presupposto compositivo. Dichiara Wall: «Faccio collidere i confini, mixando i confini», la sua ricerca si basa sulle variabili dell’inquadratura e della messa fuoco non della quotidianità, ma di valori estetici: è il creatore di uno stile ibrido nella nostra epoca digitalizzata in cui non si copia, ma si rielaborano le immagini di altri con l’ausilio delle nuove tecnologie. Wall reinventa così i media tradizionali, aggiorna la fotografia, appropriandosi di tecniche e linguaggi diversi, sperimentando esiti formali sorprendenti.
L’inaugurazione della mostra milanese “Actuality” (a cura di Francesco Bonami, fino al 9 giugno) ha coinciso con il discusso licenziamento dell’assessore alla cultura, moda e design Stefano Boeri, da parte del Sindaco Giuliano Pisapia, per cause non ancora chiarite, ed è stata prodotta dal Comune insieme a Civita e finanziata da Tod’s.
Incantano lo spettatore le sue scene di una ordinaria enigmatica realtà, che rappresentano situazioni e gesti banali, carichi di attesa, in cui sembra che stia accadendo qualcosa o forse è già accaduto tutto, sempre ad alta tensione emotiva, come nei film di Alfred Hitchcock o di Antonioni. Basta guardare Mimic (1982), Insomnia (1994) o Vancouver, 7 Dec 2009, concepite come dispositivi della visione, ricche di citazioni e rimandi a varie fonti, recuperando impostazioni tradizionali, in cui ogni singolo elemento corrisponde a una scrupolosa ricerca di equilibrio simmetrico tra le diverse parti. L’autore iconizza l’istante con fotografie che dialogano con la realtà senza rappresentarla; nell’ultima sala, al piano terreno del Pac, Hillside Sicily (2007), che mette in scena l’aspro paesaggio siciliano in bianco e nero, è una delle riproduzioni più grandi dell’artista, d’ispirazione romantica con la sua evocazione di un concetto spaziale dell’assoluto.
Ogni scatto recupera materiali di vita e un archivio d’immagini che vanno dal sociale al politico, dal personale al pubblico e non perdetevi gli still-life di soggetti apparentemente senza valore, come resti di cibo abbandonato sull’asfalto, assurto a ready made della realtà.
Al piano superiore del Pac, si affacciano sulla balaustra opere ispirate alle avanguardie costruttiviste e alle ricerche formali condotte dal laboratorio di fotografia del Bauhaus (1919-33). Restano scolpite nella memoria la serie Diagonal Composition (1993-2000), un angolo di lavabo e una saponetta usata in cui i volumi formali sono definiti dal contrasto cromatico, da muri scrostati o la serie di finestre sbarrate, trasformate in pure forme geometriche che evocano esistenze o luoghi marginali, anonimi e abbandonati. Tra i primi lavori di Wall, c’è The Destroyed Room (1978), ispirato a un dipinto del 1827 di Eugène Delacroix, La morte di Sardanapalus. L’opera è un manifesto stilistico del suo modo di impaginare il visibile e di guardare il mondo, senza documentarlo. Wall ibrida cronaca e storia, istante e durata, sospendendo nell’immagine le barriere tra pittura antica e fotografia, teatro e cinema, visualizzando una forma della memoria.
Le sue opere sono attuali perché trasformano l’istante in mito, caricandolo di allegorie, in cui i personaggi immobilizzati anche in ambienti squallidi, rimandano a dimensioni atemporali monumentalizzate. Ipnotizza per un certo non so che, After Spring Snow, by Yukio Mishima, chapter 34 (2000-2005): fotografia a colori di una figura femminile vista di spalle con i capelli raccolti sulla nuca, in cui un semplicissimo gesto è stato sublimato con una miriade di slittamenti pittorici di opere ottocentesche, senza mai scadere nel citazionismo accademico.
Se abbiamo imparato a guardare il mondo attraverso gli affreschi e i dipinti dei grandi maestri del passato, osservando le opere di Wall, pur con i suoi contrasti stridenti, i gesti dilatati nel tempo e nello spazio e i personaggi che sembrano strappati alla quotidianità, impariamo invece che l’immagine non è realistica, perché si inscrive nell’archivio della memoria.