In una società in cui la tecnologia ci incoraggia sempre più a comunicare in modalità selfie, non può certo stupire che l’autoritratto venga visto come un linguaggio che ci rappresenta e a cui ci possiamo facilmente relazionare. Pertanto, non ci si sorprende della popolarità di un’artista come Cindy Sherman, la quale, attraverso questo genere, ha stabilito la sua posizione di icona dell’arte contemporanea internazionale. Per tutta l’estate, la National Portrait Gallery di Londra le dedica una mostra antologica, centrata sul concetto dell’autorappresentazione come critica sociale.
Moltissimo si è parlato di come le fotografie di Cindy Sherman sovvertano il “male gaze”, ossia lo sguardo maschile, espressione coniata da Laura Mulvey negli anni Settanta per definire l’implicito punto di vista patriarcale che permea la comunicazione e la cultura visiva, diventandone un aspetto tacitamente onnipresente. La sua celeberrima serie Untitled Film Stills (1977-80), che ancora adesso rappresenta uno dei momenti più incisivi della sua carriera, coglie esattamente questa sovversione. Si tratta di still cinematici fittizi, in cui Sherman si fa protagonista in numerose vesti. Ogni immagine racchiude una narrativa sospesa, in cui la femminilità del personaggio è al contempo ironizzata e resa intenzionalmente oggettificata e vulnerabile. Accanto a questa serie, la mostra include diverse fasi del lavoro di Sherman, ripercorrendone il tragitto professionale.
Osservando questa vasta collezione di opere, l’enfasi sull’autoritratto per quasi cinque decadi di lavoro può apparire alquanto ossessiva oppure, con uno sguardo più cinico, il prodotto di un mercato internazionale che ha reso queste opere quotatissime e ne ha privilegiato l’esposizione. Ma c’è una chiave di lettura che sottolinea la continua originalità di quest’artista: la performatività. Approcciare alle sue opere come lavori prettamente fotografici ne limiterebbe l’importanza. Dalle prime serie, come Murder Mystery People alle più recenti come Flappers, la capacità camaleontica di Sherman non sta solo negli effetti speciali o nel trucco e prostetica: c’è una profondità in ogni personaggio, un sottotesto che rende ogni figura volutamente ambigua, tragicomica. Questi dettagli si rivelano nel linguaggio corporeo, nella psicologia dietro a ogni sguardo, espressione e gestualità. Tra le opere più recenti, spicca la serie Society Women (2008), che caricaturizza le contraddizioni di classe. Ogni immagine ritrae donne potenti ma con un persistente complesso di apparenza, che sia nel farsi vedere più riuscite, più ricche, più giovani, più desiderabili.
Ciascuno dei lavori di Sherman è meticolosamente composto. La mostra stessa vuole invitarci nel suo processo, ricreandone lo studio e, attraverso un video realizzato da Genevieve Hanson, le sue annotazioni che richiamano degli storyboard cinematografici. È questo il mondo di Cindy Sherman: sfaccettature di personaggi misteriosi, che ci confrontano e seducono allo stesso tempo. Di conseguenza, noi, come spettatori, siamo parte del loro contesto sociale, la nostra posizione altrettanto ambigua. (Jacek Ludwig Scarso)