“From Afar – In lontananza” a cura di Jessica Bianchera è la prima personale di Davide Tranchina (Bologna, 1972) negli spazi della Galleria Studio G7.
Una ricerca, quella dell’artista bolognese, incentrata sul tema dell’osservazione quale pretesto per una più ampia riflessione sulla natura del medium fotografico.
Due i macro temi ricorrenti in questa esposizione: distanza e paesaggio. Si potrebbero definire visioni oniriche di paesaggi immaginari (o forse ideali) quelli che l’artista plasma da sé creando dei fondali o meglio degli scenari. Guardando gli scatti realizzati si può chiaramente immaginare il suo studio come un teatro di posa con scorci di rilievi e alture “assemblati” dinanzi ad un “sole” o una “luna”, non ci è dato sapere se a led o al quarzo. Tranchina infatti sagoma, come è ben visibile dall’installazione site-specific di carta a parete che ne rivela il processo, panorami differenti che stratifica per poi irradiarli in controluce e renderne immateriali le sembianze che quindi ritrae fotograficamente.
Giocando a ridosso tra distanza e prossimità questi paesaggi si caricano poi di un ulteriore “peso” teorico che Tarchina aggiunge conferendo ai lavori dei titoli di alcuni intellettuali e mistici che in qualche modo hanno ispirato concettualmente l’intera operazione. Ad aprire idealmente il percorso espositivo è infatti il dittico dedicato a David Lazzaretti e al Monte Labbro, dove scoprì una caverna nella quale eresse una torre di osservazione sul Tirreno e l’Isola di Montecristo, alla quale l’artista nel 2012, ha dedicato una serie (40 giorni e 40 notti a Montecristo).
A Charles De Foucauld e al suo ritiro nei pressi di Tamanrasset che affaccia su una porzione di Hoggar algerino, è dedicato l’unico lavoro in scala di gialli. Nel 1901 Foucauld giunse in Algeria e vi si stabilì quasi ai confini col Marocco (Beni-Abbés). Iniziò una vita basata su preghiera e silenzio, lavoro e assistenza ai bisognosi. Qui definì le linee guida del suo pensiero e fondò un eremo, dove accolse i poveri e studiò la lingua dei Tuareg con lo scopo di agevolare i futuri missionari.
Idealmente ci si riavvicina ai colli bolognesi con il lavoro dedicato a Cesare Mattei e all’omonima Rocchetta. Un labirinto di torri, scalinate e stanze in miscuglio di stili dove il misterioso medico e alchimista si dedicò allo studio e alla divulgazione della medicina alternativa che soprannominò “elettromeopatia”. L’iconica sagoma di questo luogo è chiaramente presente nell’opera insieme a quella del monte da cui lo stesso Mattei scorse per la prima volta le rovine medievali di quella fortezza sulle quali sarebbe sorta la Rocchetta.
Ultima, non certo per importanza, Pieve del Pino, panorama che ispirò probabilmente Pier Paolo Pasolini per il famoso articolo Il vuoto del potere anche noto come “l’articolo delle lucciole” apparso su Il Corriere della Sera del 1 febbraio 1975, un pezzo che invita a riflettere sulla progressiva vocazione alla produzione sfrenata e all’accumulo e l’avvento di una dittatura consumistica e capitalistica a discapito della bellezza su cui sembra aver preso la meglio un imperante edonismo forsennato.
A farla da padrone nell’intero progetto resta comunque una meravigliosa imprecisione dovuta all’appannamento della memoria, espediente che come non manca di sottolineare la curatrice ci riporta al compianto Ghirri, da sempre maestro del genere.
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