Ci sono opere d’arte che non hanno bisogno di contorcersi in complicati simbolismi per trasmettere un contenuto. E ci sono artisti che non devono cercare qualcosa da dire prima di iniziare un’opera, e si concentrano sulla forma, perché questa è, per loro, contenuto e sostanza. Campione assoluto della forma in un’epoca in cui la stessa appare –per certi versi- piuttosto trascurata, Anish Kapoor (Bombay, 1954) non ha bisogno di riflettere sul nulla, l’assenza, i buchi neri, l’antimateria, l’entropia, la vertigine e il ventre materno: tutte cose cui non pensa, ma crea lavorando sui pieni e sui vuoti, sulla saturazione del colore e sulla sua assenza, sulla luce e sul buio, sui riflessi e sull’opacità assoluta. Magari sedendosi a tavolino e progettando un capolavoro di ingegneria, per poi farci parlare, per l’appunto, di vortici, della conca del cielo e della tromba dell’inferno, di vertigine e di equilibrio. Ma siamo noi che parliamo, non lui…
Lui si limita a disporre tre grandi anelli d’acciaio, a tendere una membrana di pvc nero fino a eliminare ogni rugosità e a chiudere ogni possibile speranza di luce. A noi non resta che sprofondare in quel Maelström fatto di buio, nell’illusione di poter incappare in una corrente contraria che ci riporti indietro, all’ingresso della galleria quasi completamente otturato. Così da poterci infilare in un altro infinito, quello di uno specchio concavo che ribalta e distorce la nostra immagine per restituircela raddrizzata -ma paurosamente ingigantita- se solo abbiamo il coraggio di avvicinarci (Untitled, 2004).
Così, l’artista che ha dichiarato di voler realizzare oggetti che sembrino importati da un altro mondo, trasborda proprio noi in un altro universo; e, dopo averci restituiti alla realtà che ci è familiare, ci rende alieni a noi stessi, mettendoci di fronte a un riflesso in cui non ci riconosciamo.
Quella presentata dalla galleria Minini -nella terza personale a Brescia dello scultore angloindiano- non è semplicemente una replica, inevitabilmente ridotta, delle colossali installazioni già proposte al Baltic di Gateshed (Taratantara, 1999 – quando ancora il centro non era che una vecchia birreria in disuso, completamente svuotata delle sue viscere), in piazza del Plebiscito a Napoli (2000) e nella Turbine Hall della londinese Tate Modern (Marsyas, 2002-2003): e non tanto per il colore, che da rosso sangue passa al nero, ma perché un nuovo posto per Kapoor è anche un nuovo vuoto da esplorare. Attraverso un’installazione che –occupando lo spazio fino quasi a rendere impossibile l’accesso- nello stesso tempo ne amplia a dismisura le proporzioni: rivelando tutte le pieghe interne e le sinuosità di quello che, fino ad allora, era sembrato poco più di un cubo bianco.
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