13 luglio 2000

Fino all’8 ottobre 2000 Il Padiglione belga Venezia: Giardini di Castello

 
Ai giardini è uno dei pochi padiglioni “tradizionali”, sobrio, semplice, quasi povero nel suo allestimento. L’interpretazione del tema Less aestethics more ethics nel caso del padiglione belga non coincide assolutamente con la fascinazione verso il virtuale e il digitale che caratterizza gli altri spazi e gli altri allestimenti.

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All’interno di normalissime e quasi desuete teche di metallo, chiusi da una lastra di vetro, vengono mostrati al pubblico gli sviluppi dell’architettura contemporanea belga degli ultimi dieci anni. Il risultato è affascinante: non si deve fare altro che guardare le fotografie, i disegni, i plastici che illustrano una serie di nove interessanti progetti architettonici, tra cui uno solo di progettazione a scala urbana. Non serve affaticarsi per cercare di comprendere e interpretare la nuova rappresentazione computerizzata che rende difficilmente leggibili i caratteri del progetto, che spesso confuta i concetti rassicuranti di volume, superficie, confine, recinto, negandoli tutti in un colpo solo in nome di un’architettura che non è nemmeno zoomorfica ma liquida, impalpabile, inanimata e senza forma. Senza essere falsamente nostalgici, e con la consapevolezza che presto o tardi anche la rappresentazione computerizzata arriverà a codificarsi e a codificare l’architettura, è comunque consolante vedere opere fatte di muri, di vetro e acciaio, di tetti con le tegole, magari anche rossi. Il linguaggio degli architetti belgi presentato in quest’occasione sembra ripartire dalla lezione del moderno, affascinata dalla semplicità e dalla purezza derivante dall’accostamento di materiali diversi e dall’impostazione fortemente geometrica dello spazio. In questo si può notare una differenza, ad esempio, con le opere di Pierre Hebbelinck che erano state presentate nello stesso padiglione nella scorsa edizione della Biennale. In particolare la Maison Delauze dell’architetto belga erano un omaggio più alla pittura astratta della prima metà del secolo che non all’architettura dello stesso periodo: superfici bucate da aperture asimmetriche ne animavano la composizione. Nelle opere presentate quest’anno è più facile percepire la serietà, il rigore, la compostezza di edifici che si inseriscono nei diversi contesti, dalla città, alla periferia, allo spazio verde, con estremo rispetto e con grande modestia, pur senza rinunciare all’idea di architettura come altro dalla natura. Non si tratta certo di un passo indietro o di un’arretratezza di questi progettisti rispetto a coloro che già si sono tuffati nella virtualità architettonica: è solo un’altra modalità di pensiero etico riguardo all’architettura.

Francesca Pagnoncelli

[exibart]

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