E’ un’installazione spaziale che si pone l’obiettivo dichiarato di differenziarsi dal resto della mostra: non presenta architetture in senso stretto, non prende in considerazione direttamente il tema della città, forse non si pone neppure il problema dell’eticità o meno della pratica progettuale. Se si supera la prima fase di rilassamento e di rappacificamento con sé e con l’ambiente in cui ci si trova, infatti, ci si rende conto, progressivamente, che quest’allestimento ha un forte e profondo spessore critico e prefigurativo: il tentativo è quello di rappresentare la contaminazione tra pubblico e privato reso possibile dall’uso dei computer e di mezzi di comunicazione digitali. Si può stare comodamente seduti, su una delle tante poltrone mobili incassate nel morbido pavimento del padiglione, e con un telecomando essere contemporaneamente al centro del mondo e all’interno dei più moderni flussi di comunicazione. Il suggerimento che viene dato a bassa voce al visitatore è quello che una nuova eticità, non solo architettonica, deve partire dall’individuo, dal singolo, ed informare lo spazio in cui vive, lavora, si relaziona al mondo. Ciò che non è chiaro è se gli allestitori del padiglione belga abbiano fiducia nei nuovi media, credano nell’intermediazione dello schermo, nella virtualità delle immagini, nei flussi incorporei della comunicazione.
Il dubbio maggiore riguarda però proprio il soggetto, colui che entra in questo spazio e che è invitato a fruirne liberamente, senza percorsi prefissati, senza oggetti, opere, nulla che possa distrarre il visitatore da sé stesso e dallo spazio in cui entra. Dopo essersi tolti le scarpe si può prendere la documentazione riguardante il padiglione, che non si limita a spiegarne i criteri di realizzazione, ma che si rivela essere una specie di grillo parlante, un susseguirsi di domande, questionari, riflessioni che vogliono mettere a disagio, fare in modo che ci si interroghi su cosa realmente ci ha portato a visitare la Biennale.
Se nell’edizione del 1996 il padiglione belga si distingueva fortemente dal panorama e dal carattere generale della Biennale proponendosi come spazio dedicato al gioco in cui lo sguardo ironico sui problemi urbani la riduceva in tante mini casette di legno con cui ognuno poteva comporre la sua città ideale, la stessa ironia pare caratterizzare il padiglione di quest’anno che congeda il suo visitatore con la frase “You want to go home now” come se questo dovesse essere l’ultimo spazio da visitare prima di lasciare definitivamente i Giardini e Venezia.
Francesca Pagnoncelli
[exibart]
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