Un’aria suggestiva e arcaica accompagna la mostra, “Le Opere e i Giorni”, che la galleria Marignana Arte e la Piero Atchugarry Gallery presentano nella torre trecentesca delle Grazie – restaurata nell’ambito dei Musei Civici di Bassano del Grappa – fino al 21 luglio, nel dialogo tra le sculture dell’uruguayana Verónica Vázquez (Treinta Y Tres, 1970) e le fotografie di Marco Maria Zanin (Padova, 1983).
Suggestione aurorale, prima di tutto, nel titolo che fa riferimento all’omonimo poema di Esiodo: alla voce remota e viva che racconta, adoperando il linguaggio del mito in luogo di quello della ragione – per il limite proprio di ciò che perdura inspiegabile – la condizione dell’uomo piegato al lavoro per castigo divino e al destino dei giorni trascorsi nella fatica irresoluta e ciclica e talvolta fatale dell’opera. Ci fu un’età d’oro – racconta il mito – durante la quale si era liberi dal giogo del lavoro e poi la caduta nell’era plumbea, bronzea, mortale, sortita dall’Olimpo, quando all’uomo non resta che la trasformazione della materia, l’operosità e lo studio della sopravvivenza su basi di un sapere che fa presa sull’alternarsi delle stagioni e dell’arsura e dei ghiacci, nel tempo della semina e del raccolto.
È in questo orizzonte poverista, arcaico, caduco e solerte, nel dispiegarsi del lavoro agreste cristallizzato nei ferri, negli oggetti e nei paesaggi che comincia il dialogo tra Zanin e Vázquez. Ognuno dei due in luce delle differenze di storia e provenienza, ma entrambi avveduti nell’ascolto del dentro e del fuori, della comunità di appartenenza e del racconto di sé.
Belle le foto di Zanin, perlopiù medio-grandi, presentate da una nota di Antonio Grulli, volte a ritrarre ruderi, che forse erano abitazioni o rimesse, perdute nella campagna veneta, immobili nel tempo agreste che non le trova più vive, ma le lascia sospese in un fermo immagine irreale – e non lontane dalle atmosfere delle marine desolate di Luigi Ghirri. La serie titola – e sembra evocare la raccolta di Raymond Carver – Cattedrali Rurali. Altrettanto efficaci, gli attrezzi e i legni, privati del loro ambiente d’uso e fotografati al pari di sculture autonome, la cui forma è dettata dal lavoro rappreso in essi, come forme dello spirito congelate. Spesso, il gioco riesce.
Più politico e duro, ma decisamente alchemico e poetico, il lavoro di Vázquez, introdotto da un testo di Ilaria Bignotti. Sono sculture e assemblaggi nelle quali echeggia la storia sociale e femminile dell’Uruguay. Tra i lavori più limpidi e riusciti, restituiti a nuova energia, la combinazione di cassette tipografiche che sembrano un rebus vivo ai margini di un fare perduto. Un gusto molto affine all’Arte Povera italiana, e non solo nei materiali, quanto nell’idea di indicare una tensione (Anselmo) o un disegno (Kounellis) piuttosto che una forma. Poi un cantare di ferri corrosi, abachi, cubi e griglie nell’atto di ridare nuova vita, mantenendo una soluzione aperta e processuale, forse vulcanica e viscerale, ma anche nel rimettere in ordine i pezzi di una storia civile altrimenti dimenticata.
Il tutto nell’allestimento sottile e sparente, pensato nelle fenditure e gli incavi dei muri a mattoni e pietra, che dà all’intera mostra la stessa tensione verticale della torre. (Marco Petricca)