Trent’anni sono un bel traguardo. E un attestato di professionalità, qualità, passione, perseveranza. È cresciuto negli anni puntando a un sempre più alto livello della programmazione. Parliamo del Florence Dance Festival guidato dalla tenace e appassionata direzione artistica di Marga Nativo e Keith Ferrone. Anche in questa edizione il cartellone è ricco e variegato: dal divo del momento Sergei Polunin alla compagnia di Singapore T.H.E. Dance Company, dalla Compagnia Zappalà Danza agli israeliani Batsheva, Kibbutz Contemporary Dance, e l’ensemble di Roy Assaf che ha presentato Boys. E di questo parliamo, di Roy Assaf, danzatore e coreografo trentasettenne, cresciuto in una comunità rurale di Israele, talento naturale con una pratica amatoriale, da ragazzo, di hip-hop, tip tap, jazz e modern dance. Scoperto da Emanuel Gat col quale si forma danzando nella sua compagnia, approda infine alla creazione autoriale con un segno ben stagliato dove prevale l’urgenza di produrre, attraverso un vocabolario contemporaneo e una narrazione non descrittiva e chiusa, un’atmosfera che immerga lo spettatore dentro una storia o più storie da immaginare. Lo si evince, tra le sue già numerose creazioni tese ad esplorare la condizione umana, anche in Boys, dove, con una danza più astratta, cinque danzatori inscenano un universo maschile fatto di complicità, di violenza, di tensioni, di eccitazioni, di prevaricazioni e asservimenti, di allegria e spensieratezza. Tutto scaturisce da situazioni di giochi, gaie improvvisazioni nate in sala prove con dentro il bagaglio personale di vita e di pensieri dei danzatori. Lo spazio della rappresentazione è una lunga striscia bianca nel più vasto spazio nero attorno. Seduti in proscenio ci guardano per un lungo tempo. Al suono di una tromba e alla successiva musica bandistica poi melodica e varia (si va da Bob Dylan al mambo di Perez Prado, dal pianoforte di Jean Sibelius a Mahler e a Wagner, da Uri Caine a Reggie Watts e Takagi Masakatsu), iniziano ad articolare gesti e movimenti singoli che continuamente confluiranno e s’intrecceranno nel gruppo modellando lo spazio delle emozioni, delle connessioni interpersonali. Assumono posture ironiche, scultoree, militaresche, che sfumano anche in una gara di forza e di fragilità; gridano, intonano canzoncine, da fermi o in girotondi e corse; avanzano uniti, poi divisi, battendo colpi a terra; si coprono reciprocamente gli occhi in fila l’uno dietro l’altro slacciandosi e facendosi cadere i pantaloncini neri per rimanere in slip, tornando a rivestirsi e riprendere i trastullamenti.
Roy Assaf Dance Company PH_Keren_Kreyzer photo
Si atteggiano vanitosi, competitivi in passerelle e molleggiamenti con una musica mambo, mentre improvvisamente qualcuno cade a terra come morto e gli altri fermi a guardarlo; si rannicchiano a terra, si aiutano a rialzarsi, si bloccano in pose da Deposizione plastiche. Tutto questo, e molto altro, con una danza molto fisica, energica, leggera, ironica, ruvida, veloce e pacata, espressiva nei volti e nelle dinamiche relazionali dove aleggia, senza gravità, lo spettro di una condizione politica, sociale ed esistenziale – pace, tensioni, eversioni – del Paese del coreografo. Espliciti sembrano essere alcuni momenti: l’elenco delle date delle guerre in Israele in un rimbalzo e sovrapporsi vocale tra i danzatori seduti a terra, fino ad una potente sequenza culminante in una crocifissione di straziante bellezza modellata su un corpo inerte intrappolato, umiliato, fatto scorrere, girare, accarezzare, fra le gambe e i piedi alzati da terra degli altri quattro performer. E intanto riecheggia la voce di Chaplin nel finale del Grande dittatore, quel discorso sulla speranza riposta nell’essere umano affinché sia migliore di quello che dimostra di essere. Assaf ci mostra, con pathos e humor, le varie sfaccettature della mascolinità dentro la nostra società, definendo e smantellando il prototipo dell’identità maschile e gli insiti meccanismi di forza che lo muove.
Giuseppe Distefano