I grandi artisti nuotano “controcorrente”

di - 18 Dicembre 2020

Nelle numerosissime pubblicazioni di saggi ce ne sono spesso di inutili ma, talvolta, ce ne sono alcuni che sono preziosi e necessari e questo di Laura Cherubini è uno di quelli, anzi ControCorrente è una lettura di cui non si dovrebbe fare a meno. In questi ricchissimi ritratti di quattro artisti e di un’artista, tutti protagonisti di quella felice stagione dell’arte italiana che si è sviluppata fra gli anni Sessanta e Ottanta, l’autrice ha attinto a piene mani alla sua personale esperienza di critica militante che ha vissuto e lavorato con loro.

Controcorrente, edizioni Marinotti, cover

Questa sua esperienza in prima persona è stata trasposta nelle pagine del libro mediata dalla sua sua originale visione di storica dell’arte e di curatrice. Il racconto, diviso per capitoli che sono altrettante pubblicazioni, si snoda lungo le pagine del libro con una scrittura colta e allo stesso tempo viva e avvolgente che è un piacere leggere, ricreando situazioni e momenti che anche noi lettori avremmo voluto vivere non solo per la loro intensità ma per la loro importanza storico-artistica. Il sottotitolo si riferisce agli artisti presi in esame come a dei grandi solitari e in effetti, ognuno a modo suo e ognuno con le sue personalissime unicità, sono stati eccezionalmente unici e irripetibili, soprattutto se guardati con gli occhi dell’oggi ormai piuttosto assuefatti ad una certa omologazione non solo di stili ma anche di comportamenti e di estetiche. In copertina una foto di Claudio Abate ritrae un paio di babbucce da neonato tricottate all’uncinetto con il filo di nylon e abbandonate sulla battigia di una spiaggia dalla sabbia scura, è il 1968 e Marisa Merz era andata con il giovane fotografo romano sul litorale di Fregene a scattare questa immagine iconica che fissa l’azione realizzata durante l’estate dall’artista ad Amalfi nella famosa mostra di Celant “Arte povera + Azioni povere”. Unica donna nel muscolare gruppo degli artisti poveristi Marisa Merz aveva scelto di essere una presenza defilata con opere delicate, “umbratili” le definisce Laura Cherubini, ma di altissimo profilo qualitativo e profondamente intessute con la sua vita. “Creare un’opera avviene continuamente, è un pensiero fisso, non c’è differenza tra l’opera e la vita” dice l’artista che aveva fatto del suo spazio privato, domestico e intimo il fulcro del suo lavoro che diventava un’estensione di sè stessa. Le sue opere sono “cose vive” in trasformazione costante, esattamente come lo siamo noi mentre viviamo, ma che, grazie alla loro affascinante indeterminatezza, riescono a minare con grazia ogni nostra certezza precostituita.

Alighiero Boetti, ONE Hotel Kabul

L’opera d’arte, quando non è pura decorazione, pone interrogativi e solleva dubbi e Marisa Merz in silenzio è riuscita con il suo lavoro costante e poetico a scardinare dei topoi, considerati patriarcalmente sacri, come quello della maternità. La narrazione parte da Torino, dove viveva Alighiero Boetti, oltre a tutti i protagonisti dell’arte Povera, e che fino al 1972 era stata la città più contemporanea d’Italia, per spostarsi in una Roma vibrante di energia creativa e che diventa lo sfondo meraviglioso su cui raccontare uno straordinario e purtroppo irripetibile ventennio. Alighiero Boetti, Gino de Dominicis, Luciano Fabro, Fabio Mauri e Vettor Pisani sono stati grandi amici di Laura Cherubini che con loro ha realizzato non solo mostre ma veri e propri mondi. Di ciascuno è rigorosa la filologia e, allo stesso tempo, appassionato il ricordo, ed è questo doppio binario su cui si muove il racconto che rende questo saggio unico. Di ognuno l’autrice ha messo in risalto le dissonanze rispetto agli altri creando quindi un affresco di personalità impossibili da omologare in una corrente o in una tendenza. Questi artisti sono diventati, proprio per la loro eccentricità rispetto al sistema, dei punti di riferimento importanti per le giovani generazioni alle quali hanno aperto strade e illuminato visioni. Queste figure ormai iconiche sono state accostate dall’autrice non secondo il noioso criterio dell’analogia, ma, al contrario cavalcando la straordinarietà delle loro dissomiglianze. L’intrinseca trans-culturalità e l’incessante e continuo dialogo con l’altro da sè ha caratterizzato tutto il percorso creativo di Alighiero Boetti che scopre l’Afghanistan nel 1971, un luogo magico che per lui diventa una seconda patria, dove soggiornerà almeno due volte l’anno fino al 1979 e dove aprirà, a Kabul, il mitico One Hotel. Gino De Domicis invece caratterizza tutta la sua produzione artistica nell’assoluta fede nell’arte fuori dal tempo, nel suo interesse per una civiltà pre-diluvio biblico, quella dell’eroe sumero Gilgamesh e della sua sposa Urvati. “Non sono mai stato molto interessato all’arte moderna e neanche a quella antica, bensì a quella antidiluviana” scrive De Dominicis, perché, spiega Cherubini, è l’originarietà a colpire l’artista che spesso amava ripetere che i Sumeri avevano inventato tutto.

Fabio Mauri, Schermo-Disegno, 1957

Per Luciano Fabro è invece il corpo che fa la parte del leone, un corpo che si prolunga in tutte le cose del mondo, un corpo con cui misurare lo spazio e la nostra esistenza. Lo svelamento della manipolazione dell’ideologia è il fulcro dell’opera, decisamente politica, di Fabio Mauri che nel 1957 realizza il suo primo Schermo che con lui, incredibilmente in anticipo sui tempi, da monocromo diventa nuova, vera forma simbolica del mondo. Vettor Pisani è certamente la presenza più enigmatica con il suo lavoro iniziatico ed esoterico. Un’artista complesso che già nel 1970, nel clima dominante dell’arte povera, spiazza e sconcerta con la sua prima personale alla galleria La Salita di Roma: “Maschile, femminile, androgino. Incesto e cannibalismo in Marcel Duchamp”, una mostra che sovvertiva il gusto main stream con opere ricche di riferimenti simbolici al sacro e all’elemento spirituale.

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