«Volevo ricordarvi che i semi che ho portato erano solo il punto di partenza di un processo di ricerca che sta a voi adesso ‘tessere’. Non preoccupatevi se non germogliano, cercatene altri, fateveli spedire, regalare, scovateli negli orti di parenti e amici, nel minimarket bengalese sotto casa, sulle bancarelle del mercato; – soprattutto –scopritene le storie, le denominazioni, le ricette, le proprietà curative». Sono queste le indicazioni date da Leone Contini agli studenti di un workshop che l’artista ha tenuto all’Accademia di Belle Arti di Roma su invito di Anna Maria Maiorano, docente di Decorazione, Arte ambientale e Linguaggi sperimentali, in collaborazione con il mio corso di Storia dell’arte contemporanea.
Artista che indaga il modo in cui migrazioni e diaspore, conflitti interculturali e rapporti di potere influenzano il contesto antropologico e il paesaggio botanico nel quale si trova a operare, Leone Contini (Firenze, 1976) ha una formazione mista. Ha studiato Filosofia e Antropologia culturale all’Università di Siena e contemporaneamente si è costruito un proprio percorso artistico spaziando dalla Scuola libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti di Firenze a numerosi workshop tenuti da artisti attivi a livello nazionale e internazionale. Col tempo, la pratica artistica e quella antropologica si sono fuse, tanto che – afferma – per lui «non ha più molto senso distinguere tra le due sfere, stabilire se un progetto riguarda l’antropologia o l’arte». Ricorrendo a un concetto caro all’artista, si potrebbe dire che i due saperi si sono “ibridati”. Nell’illustrare il proprio lavoro, inoltre, Contini ricorre spesso al termine inglese fieldwork, usato in senso etnografico, come indagine sul campo. E di fronte agli studenti cita il metodo di Malinowski, consistente in una partecipazione attiva alla vita della comunità che si sta studiando, una tecnica che l’antropologo aveva messo in pratica quando studiava la cerimonia del dono presso gli indigeni della Melanesia.
È dunque da queste premesse che dieci anni fa Contini ha avviato la propria ricerca. È partito dall’osservazione di un fenomeno allora nuovo: la presenza di orti cinesi tra i capannoni industriali di Prato, dove l’artista vive (sulle colline di Carmignano), anche se sempre più spesso è in giro per il mondo. Contini, infatti, ormai è richiestissimo, soprattutto dopo la partecipazione, nel 2018, alla dodicesima edizione di Manifesta con il progetto Foreign Farmers, un giardino sperimentale per l’acclimatazione e la coabitazione di piante di diversa provenienza (per lo più cucurbitacee), realizzato nell’Orto Botanico di Palermo. Solo in questi mesi, oltre ad una serie di lectures, ha in corso due mostre personali, una a Vienna, presso la galleria Kevin Space e l’altra a Lione, all’Institut d’Art Contemporain Villeurbanne; espone al PAV Parco Arte Vivente di Torino nella collettiva “Resistenza/ Resilienza” curata da Gaia Bindi e Piero Gilardi, e durante tutta l’estate sarà impegnato in una serie di interventi di riqualificazione di spazi dismessi e aree abbandonate nell’ambito del progetto internazionale “Gardentopia”, ideato dalla curatrice turca Pelin Tan per Matera 2019 Capitale Europea della Cultura.
Parlando del senso della propria ricerca, Contini racconta spesso un episodio di sapore proustiano che assume un valore fondativo. «Mia nonna, che viveva a Firenze ma era di origini siciliane, ci cucinava una minestra tipica delle sue parti, la minestredda di cucuzza, che per noi rappresentava un rito familiare. Era fatta con la zucchina lunga siciliana, la Lagenaria Longissima, ma siccome in Toscana non si trovava, mia nonna si faceva spedire i semi da Cammarata, nell’agrigentino, suo paese d’origine e li piantava nell’orto. Questa tradizione familiare si è poi interrotta e solo molti anni dopo ho potuto riassaporare la minestra della mia infanzia grazie a un contadino cinese che coltivava quella stessa ‘cucuzza’, ma la chiamava pugua. A Prato, nel corso degli anni Novanta, c’è stata una grande immigrazione di lavoratori cinesi occupati nelle aziende tessili. Dagli inizi degli anni Duemila, però, e poi ancor di più con l’inasprirsi della crisi del tessile, tra questi capannoni industriali sono spuntati degli orti coltivati da quegli stessi operai, tornati contadini. Proprio come mia nonna, anche loro si facevano spedire i semi dalla Cina per poter mangiare gli ortaggi della loro terra. Verso queste coltivazioni si è presto scatenata una campagna diffamatoria, a sfondo razzista, basata sull’idea di proteggere l’identità rurale italiana (quando in realtà quei terreni erano da tempo abbandonati) e sul timore dell’uso di semi geneticamente manipolati. Eppure è grazie all’incontro con la comunità cinese di Prato, generalmente percepita come irriducibilmente altra, che io ho potuto riattivare un rito familiare altrimenti perduto». Così da anni le zucche sono al centro di alcuni progetti sulla dialettica tra sradicamento e riconnessione realizzati da Contini presso istituzioni d’arte contemporanea.
Tornando al workshop tenuto all’Accademia di Belle Arti di Roma, agli studenti provenienti da varie parti d’Italia, dalla Cina, dall’Iran e dal Messico Contini spiega: «L’importante è cercare i semi, la germinazione è solo l’occasione per metterci in cerca di storie». Sono le storie, infatti, ossia la rete di relazioni umane (sociali, politiche, economiche) che gravita intorno ai semi a interessare davvero l’artista. «Raccontami un po’ di questi semi! – chiede premuroso, mentre gli occhi chiari brillano di curiosità – Cosa sono? Da dove vengono? Come li hai avuti? Qual è il nome in cinese? Me lo puoi scrivere? E mi raccomando, aggiornatemi! Come sta l’aglio? Il baobab ha germogliato? E le zucche?». In questo modo Contini innesca un processo per cui i semi divengono “connettori” di relazioni umane e di narrazioni, che gli studenti sono invitati a sperimentare e documentare nei loro diari di semina con testi e immagini. Katia, ad esempio, sta realizzando un “orto fusion” vicino Anzio, dove ha piantato i semi di zucca cinese che Contini aveva portato con sé da Prato, e donato agli studenti all’inizio del workshop, insieme a semi di zucca filippina che le sono stati regalati da Jagatar, un indiano del Punjab che ha un’azienda agricola familiare a Nettuno, dove coltiva per la comunità filippina e cinese zucche che poi vende in Italia, Francia e Germania.
Del resto i semi sono migranti per natura. In questi mesi Leone Contini pianterà a Matera quelli ricevuti in dono dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma. L’artista diventa così un vettore per i semi e con essi diffonde anche un modello di coesistenza sul quale riflettere. Alla fine è solo una questione di tempo, ma la domanda è: quanto ne occorre affinché una pianta originaria di altri territori sia considerata nativa?
Flavia Matitti
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