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In vetro veritas

di - 16 Aprile 2013

Due globi oculari estroflessi da un teschio incastrato fra quattro lastre trasparenti che si intersecano ad angolo retto. Estroflessi e tenuti sospesi grazie a due soffi d’aria compressa che escono dalle orbite vuote. Si tratta di Death or Glory? (2001) di Damien Hirst una delle opere esposte a “Fragile?”, curata da Mario Codognato nel nuovo spazio “Le stanze del Vetro” all’Isola di San Giorgio a Venezia.
La mostra si inserisce in un progetto di rilancio promosso della Fondazione Giorgio Cini, in collaborazione con l’elvetica Pentagram Stiftung, fondata da Marie-Rose Kahane, moglie di David Landau, di cui si ricorda, oltre alla passione per il vetro, la breve permanenza alla presidenza dei Musei Civici di Venezia nel 2010, condita in chiusura da qualche osservazione garbatamente al vetriolo. Nei diversi comunicati che un anno fa presentavano la nuova collaborazione veneziano/svizzera si sottolineava come non si trattasse in alcun modo di una qualche rivalità verso i musei civici, o del Museo del Vetro o dell’Università. Piuttosto di un tentativo di stimolare «la collaborazione e la nascita di nuove iniziative in città», in grado di attirare «collezionisti, artisti e studiosi da tutto il mondo». Prospettando un impegno di circa un decennio, grazie anche alla riscoperta (e conseguente valorizzazione) degli archivi, creduti persi, di uno dei più importanti produttori veneziani del settore: Venini. Azienda fondata una novantina di anni orsono e per la quale hanno lavorato non solo artisti, ma anche designer e architetti di rilievo assoluto quali Giò Ponti, Tadao Ando, Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, fino a Claudio Silvestrin, e soprattutto Carlo Scarpa, che con la Venini inizia a collaborare nel 1932 e ne sarà il direttore artistico fino al 1946. A Scarpa è stata dedicata non a caso la prima mostra di Le Stanze del Vetro, una sorta di dichiarazione inequivocabile di identità culturale.

Il secondo appuntamento, quello di cui qui si parla, si svincola però da una troppo filologica (o didascalica) relazione con una specifica storia artistica, seppure attualizzata, e punta piuttosto a rileggere il vetro come materiale anonimo, da produzione industriale, in relazione ai suoi utilizzi più comuni – contenitore, materiale per l’edilizia o per l’illuminazione – e proprio per questo utilizzato da uno stuolo di artisti contemporanei. Fragile: aggettivo e precauzione per antonomasia da ricordare ogni volta si debba aver a che fare con il vetro, diventa non a caso una interrogazione. E un percorso nei circa seicento metri quadri di un ex spazio ad uso educativo ridisegnato mantenendo comunque un andamento che non ha stravolto l’originaria disposizione di ambienti relativamente contenuti, regolari e in sequenza. La scelta del curatore implica di fatto una inversione fra ciò che è artistico e ciò che non lo è, soprattutto se visto con un’ottica veneziana. Così che ‘artistico’ diventa quel che come materiale di partenza è completamente estraneo all’artisticità tradizionalmente connessa al vetro.
Si comincia con 6 Panes of Glass in a Rack una struttura in vetro e acciaio di Gerhard Richter fredda e minimalista, ma che in realtà si connette ai molti dispositivi – trasparenti, specchianti, semispecchianti – che il maestro tedesco ha prodotto articolando, non solo pittoricamente, il nucleo delle sua riflessione fra vedere e rappresentare. Il percorso si conclude con l’ampolla duchampiana di Air de Paris, ready-made molto noto, quanto profondamente inscritto dentro la poetica dell’artista che ha fatto di hasard ed air due fattori d’arte. Fra le stazioni di partenza e arrivo vi sono diverse soste di un itinerario preciso, dall’andamento quasi ‘saggistico’, nel senso che come nel caso di una puntuale bibliografia che attesti la liceità della tesi sostenuta, anche qui le opere sono chiamate ad estrinsecare la polivalenza dell’idea di La pura vetrità, neologismo coniato per il testo in catalogo. Testo che prova a motivare e descrivere come la verità del vetro sia stata reinterpretata in modi molto diversi dagli artisti, le cui opere potrebbero ognuna aprire itinerari che ci porterebbero lontano da Venezia, lungo altre rotte, come nel caso di Migrants (2013) di Cyril de Commarque. Le sue bottiglie sembrano contenere degli organi che pulsano, cuori in ansia di chi si accinge ad attraversare, viaggio/messaggio di speranza e disperazione, le acque del Mediterraneo.

Chiarendo i criteri della scelta, la riflessione sul senso stesso del materiale si intreccia con uno sfondo filosofico antico/moderno inerente il vedere attraverso, l’ideale etico e non solo architettonico rappresentato da un materiale “nemico del segreto” che, secondo l’ipotesi di Paul Scheerbart, avrebbe avuto il compito di esaurire la civiltà «…dell’interno borghese, fatta di schermi tra un dentro e un fuori, ombre e nascondigli». Dato il tema prescelto non è evitabile, sarebbe stata cosa ben ardua farlo, il riferimento all’oggetto paradigmatico della ‘vetrità’: cioè la finestra. Dispositivo rinascimentale  per eccellenza (considerata l’intersecazione trasparente della piramide ottica) che rendeva possibile il perspicere, e  ultima soglia che tiene separate arte e vita, e che per questo non si può non infrangere. Con quel che di ambivalente è inscritto in tale effrazione: la catastrofe tutta terribilmente (dis)umana che si annuncia nella Kristallnacht, la catastrofe invece naturale di un Terremoto ricordata dall’installazione di Joseph Beuys concepita nel 1981 quale memento di ciò che era successo in Irpinia.

Ma l’effrazione è anche quella paradossalmente quanto distruttivamente ludica di Ever is Over All di Pipilloti Rist, (video che le ha valso il premio 2000 alla Biennale del 1997), dove è la grazia ineffabile di una giovane donna a distruggere con un arnese/fiore esotico i finestrini di decine di auto parcheggiate. Oppure i vetri a sicurezza infranti di un’artista contemporanea quale Monica Bonvicini, o quelli non meno distrutti, ma relati con attenzione allo spazio espositivo nelle installazioni di un artista già storicizzato come Barry Le Va. Declinazioni entrambe di una revisione critica del Minimalismo, senza però negarne la rilevanza. E che in mostra a Venezia presenta uno degli esempi più limpidi del suo versante concettuale, cioè un bellissimo Glass –One and Three di Kosuth del 1965.
A ritmare il percorso non mancano gli aspetti dichiaratamente quotidiani delle forme assunte dal vetro nella sua valenza di contenitore: vaso/barattolo (in Ai Wei Wei, in Anselmo, in David Hammons)  e bottiglia (nella natura morta di Kounellis, nei resti dissimulati di un party di Matias Feldbakken, nel riciclo a tabacchiera di Gilbert & George, o nell’installazione che sembra galleggiare sul pavimento di Mona Hatoum). La relazione fra vetro/trasparenza e luce artificiale costituisce un altro riferimento imprescindibile: qui sono i lavori di Mario Merz e di Keith Sonnier, che si trovano ad usare superfici trasparenti coniugate al neon. Non può che essere incompleto per dovere di sintesi questo elenco di opere, e ne mancano di notevoli. Per scoprire le quali, considerando che la mostra rimarrà aperta fino a fine luglio, varrà davvero la pena di deviare un po’ dai percorsi biennalistici.

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