Dalle poesie cinesi dell’8° secolo alla composizione in sei movimenti di Gustav Mahler: fonte di inesauribile ispirazione anche per il fotografo svizzero Richard de Tscharner (Berna 1947, vive e lavora tra la Svizzera e Dubai) che nelle sue 59 immagini in bianco e nero ha intercettato la bellezza del mondo, riflesso di un’eternità solo apparente e il controverso rapporto tra la natura e la civiltà. “Il canto della terra. Un poema fotografico” (fino al 22 agosto) è la sua prima mostra in Italia. Curata da William A. Ewing e organizzata da PHOTODI (associazione culturale presieduta da Mario Santoro) con il patrocinio del Comune di Todi, l’esposizione si snoda in tre luoghi significativi nel centro storico dell’antica città umbra: la Sala delle Pietre, il Museo Pinacoteca a Palazzo del Popolo e il Torcularium nel Complesso delle Lucrezie. È una fotografia lenta quella di de Tscharner che usa l’Hasselblad montata sul treppiedi. «Il tempo fa parte del processo,» – spiega il fotografo – «non mi relaziono all’automatismo dell’apparecchio ma al risultato che voglio ottenere». Dalla ritualità della danza delle maschere dei Dogon, in Mali, alle rovine nubiane nel Sudan occidentale passando per i meravigliosi deserti e i ghiacciai immacolati per poi scoprire la vitalità di un campo di calcio a Shibam (Yemen) o cercare le tracce degli Incas a Cuzco. «Viaggiare è il mio peccato», sosteneva Agatha Christie intitolando il suo racconto autobiografico pubblicato nel ’46. In un certo senso è così anche per Richard de Tscharner.
Partiamo dal titolo Il canto della terra. Un poema fotografico…
Vai direttamente al cuore! Prima però vorrei dire due parole che penso possano essere preziose per capire il titolo di questa mostra. Come forse saprai sono stato negli affari per oltre trent’anni, in quel periodo ho viaggiato moltissimo da una capitale all’altra. Ma quello era un altro mondo. Quando sono andato in pensione, a sessant’anni, ho deciso finalmente di scoprire un’altra realtà e ho organizzato un viaggio intorno al mondo. È questo che ha cambiato la mia visione. Ho scoperto la bellezza del mondo. Con questa consapevolezza ho continuato a viaggiare per analizzare con più dettagli principalmente le tracce del tempo, cosa che mi ha portato a distinguere le tracce del tempo degli esseri umani da quelle del nostro pianeta. Tracce che risalgono a 7 miliardi di anni, durante i quali la terra ha subito tempeste di neve, incendi. Il risultato di queste sofferenze ha prodotto vulcani, canyon, deserti, ghiacciai… che oggi rappresentano la bellezza dei «giardini degli dei». Un messaggio di coraggio che vorrei trasmettere alle generazioni più giovani, sottolineando che la vita non è facile, ma attraverso le difficoltà si torna a vedere la luce. Quanto alla scelta del titolo della mostra Il canto della terra – Das Lied von der Erde, si tratta dell’ultima composizione di Gustav Mahler. Quando egli scrisse quest’opera, nel 1908, era completamente distrutto dalla morte di una delle sue figlie, inoltre era stato forzato a lasciare la sua posizione di direttore artistico dell’Opera di Vienna per le pressioni antisemite e aveva anche una malformazione cardiaca. Sapeva di essere alla fine della sua vita ma trovò comunque la forza di creare questo capolavoro selezionando alcune poesie cinesi antiche di secoli. Nel farlo aveva guardato indietro proprio alla bellezza del mondo, al suo rigenerarsi continuamente e per sempre. Da una parte, per me, è stato anche puntare il dito sulla fragilità della nostra vita e su quella della natura che soprattutto oggi, ancor più che nel passato, dobbiamo rispettare e difendere. La natura, comunque, può vivere anche senza l’essere umano mentre non può succedere il contrario.
L’utilizzo del linguaggio del bianco e nero è l’espressione della sua fotografia lenta?
Non solo il bianco e nero anche la fotografia analogica. Sì, si tratta di una fotografia lenta. Ho tempo da dedicare alla fotografia. Non scatto e fuggo via e normalmente, una volta scattata la fotografia, entra nel mio archivio e la stampo anche un anno dopo. Questo è il tempo medio tra un passaggio e l’altro. Il linguaggio è il bianco e nero ma non è esattamente bianco né nero. In mezzo ci sono migliaia di nuances, sfumature di grigi e tonalità che sono i colori della fotografia bianconero.
Quando ha iniziato a interessarsi alla fotografia?
Ero un bambino. La fotografia era un hobby, ma nel tempo l’ho messa via dando la priorità alla famiglia e al lavoro. Poi nel 2003, tre anni prima che smettessi di lavorare, un mio amico – il fotografo francese Jean-Baptiste Huynh – mi chiese se volevo unirmi a lui in un viaggio che stava pianificando in Africa. Dissi subito di sì perché colsi l’opportunità di ritirare fuori la mia macchina fotografica. Malgrado fossero passati quarant’anni sapevo ancora usarla! Era come andare in bicicletta. Dopo aver visto le stampe, fu proprio lui a consigliarmi di dedicarmi alla fotografia una volta andato in pensione. Era la prima volta che andavo in Mali, ma ci sono tornato e sono sempre in contatto con la gente del posto con la speranza di poterci andare ancora una volta quando sarà possibile.
Il viaggio intorno al mondo è stato il punto di partenza di questo nuovo percorso legato alla fotografia, come si è sviluppato?
Ho avuto la fortuna di entrare in contatto con Bill (William) A. Ewing, il curatore di questa mostra, che ha una grandissima conoscenza della fotografia. Prima di tutto ci ho tenuto che facesse parte del comitato della Fondation Caréne che ho creato con l’obiettivo di salvaguardare la conoscenza e preservare le radici e le tradizioni culturali. Qualche anno dopo, quando ho iniziato ad avere quella che chiamo la «collezione», gli dissi che ero un giovane fotografo ma un uomo anziano e non potevo permettermi di fare errori. Così lui è diventato la mia guida, una presenza veramente molto preziosa per me. Dopo il viaggio intorno al mondo avevo realizzato un libro e una mostra, ma sto crescendo solo da quando Bill è entrato nel comitato della fondazione e ha iniziato a strutturare il mio percorso espositivo con la mostra De Profundis a Versoix nel 2015 e, due anni dopo, da Sotheby’s a Ginevra. Anche il nuovo progetto a cui sto lavorando, e conto di concludere in un paio d’anni, è sulle tracce del tempo: riguarda i passi alpini. La Svizzera, infatti, è interamente circondata da montagne e da passi. Storicamente i passi hanno avuto ruoli diversi, durante le guerre sono stati una barriera protettiva. Un’indagine che riflette su ciò che non è visibile. Insieme alla fotografia ci saranno i testi di due storici, perché si tratta di qualcosa di più che una semplice fotografia di paesaggio.
Parlando di metodologia del lavoro, oltre alla ricerca c’è spazio anche per l’imprevisto?
Quando programmo un viaggio solitamente ho idea di quello che vorrei fotografare, ma il risultato del lavoro è sempre una combinazione tra ciò che era in programma e l’imprevisto. Guardando un paesaggio, una montagna… c’è sempre qualcosa che entra nella visuale – la luce, le nuvole, gli uccelli – e cambia il nostro modo di guardare. Bisogna avere flessibilità. Durante il giro del mondo è stato diverso, perché avevo delle tappe fisse e non potevo aspettare o tornare indietro. Per fortuna avevo Google Earth che mi ha permesso di recarmi in posti sconosciuti o altri più noti come Machu Picchu, dove però è stato utile per sapere il punto migliore per guardare l’alba o il tramonto. Ma certamente, come dicevo, il tempo, le nuvole, la luce… sono fattori sempre imprevedibili.
Scrive appunti durante i suoi viaggi?
Sì, quando lo faccio è proprio nel momento in cui sto vivendo quell’esperienza per non dimenticare certe sensazioni, suoni… Se non lo faccio immediatamente quelle atmosfere fuggono via. La scrittura è parte del progetto. La fotografia è favolosa ma da sola non è abbastanza per me. È come l’opera che è una combinazione di musica, parole e teatro: stimola tutti i nostri sensi. Nella mia mostra De Profundis c’era anche la musica che crea un’ulteriore dimensione che impreziosisce la fotografia.
Ancora due parole sul viaggio intorno al mondo del mondo: usa il pronome personale plurale noi…
In quel viaggio realizzato nel 2008 e durato 108 giorni non abbiamo fatto cose spettacolari. La spettacolarità è stata nell’aggiungere cose così diverse tra loro che abbiamo avuto modo di vedere, scoprire. Un viaggio così lontano dalla nostra vita di tutti i giorni che è stato di per sé un’esperienza unica giorno dopo giorno. Era come se ci trovassimo in un altro mondo. Parlo al plurale perché con me c’era un mio amico di Zermatt, Mario Julen, che allora era solo una guida alpina. Dieci anni dopo posso affermare che lui è diventato un vero uomo d’affari ed io un fotografo felice.
Durante quell’esperienza in tutti i continenti ha visitato luoghi meravigliosi e incontrato persone altrettanto belle. C’è un posto, in particolare, che le è particolarmente caro?
Oh… il viaggio intero è nel mio cuore! Mi ha dato la forza e la felicità che continuerò ad avere fino all’ultimo giorno. Un’esperienza così incredibile nella scoperta degli «altri mondi», quei «giardini degli dei» che ho citato all’inizio della nostra conversazione. Provo una sensazione piena di gratitudine.
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