Quando si pensa al lavoro di Giulio Paolini non si può prescindere dall’evocare sullo schermo nero della memoria quelle sue geometricamente perfette quadrature di fogli bianchi, le sue tele solitarie o contrapposte, spesso presentate con il telaio come unico elemento di decorazione e gli strumenti manuali del fare arte che attraverso il filtro del suo pensiero si distillano in altrettanti micro-universi concettuali. La sua pratica artistica così rigorosa e allo stesso tempo poetica è un viaggio non solo nell’essenza dell’opera d’arte, ma anche più in generale nella storia dell’arte che, dal ritratto di giovane dipinto da Lorenzo Lotto in poi, ha sempre ispirato e guidato il pensiero di Paolini.
Ciò che l’artista chiede implicitamente di fare è guardare una delle sue tele bianche in cui l’unica presenza è il punto di fuga prospettico che concettualizza lo spazio del quadro o ancora concentrarsi sulla geometria della quadratura, momento iniziale e iniziatico per eccellenza, vera soglia dell’opera e del suo farsi.
L’opera d’arte è sempre una soglia, un varco mentale che ci introduce in un mondo parallelo a quello fisico in cui si deve guardare con gli occhi della mente, un esercizio di attivazione neuronale che ci porta in una dimensione affascinante e complessa. Ci sono artisti che ci conducono in questo viaggio fuori e dentro di noi attraverso le parole, altri con l’azione performativa e altri ancora con delle immagini apparentemente semplici, ma che hanno la capacità di penetrazione di un bisturi. Tutto il lavoro di Paolini è così: affilato e tagliente nel suo equilibrio formale perfetto, un esercizio di rigore compositivo che non ammette sbavature e che arriva con la precisione di un proiettile a colpire quelle aree dell’immaginazione e del ricordo che, attivandosi, creano collegamenti e rimandi altrimenti impossibili. La costruzione di sublimi scenografie della memoria e di una simbologia dell’immaginario di estrema raffinatezza visiva e intellettuale sono le solide basi fondanti su cui poggiano una serie di opere esteticamente e visivamente perfette sempre in bilico fra i due opposti dialettici di realtà e sua rappresentazione.
A Roma questo poeta dell’immagine, questo fine scandagliatore della mente intesa come deposito della memoria e della Storia, è tornato per realizzare una sua personale di grande forza visiva nel suo perfetto equilibrio formale ed estetico come solo un genio del Minimalismo, alimentato dalle reminiscenze visive del grande Rinascimento italiano, poteva fare. Il titolo della sua personale “Sulla soglia”, presso la galleria Giacomo Guidi (fino al 5 aprile), ci rimanda senza giri di parole al tema fondante della sua poetica visiva che ci parla di un’arte certamente auto-riferita e auto-riflessa, ma allo stesso tempo in muto e continuo dialogo costante con tutte le voci dei grandi che sono venuti prima e anche con quelle di chi si è affacciato dopo sul palcoscenico dell’arte.
Nel clamore costante che inquina ogni momento del nostro vivere, l’opera di Giulio Paolini è un momento di riflessione profonda e di silenzio, attraverso il suo lavoro solitario e non urlato l’opera d’arte si erge in tutta la sua potenza intellettuale che diventa bellezza, l’unica arma possibile contro l’involgarimento costante di un mondo debordante.
Da Giacomo Guidi è esposta la summa di cinquant’anni di pensiero coerente, come se da quella lontana sua prima personale romana datata 1964 alla Galleria La Salita di Tommaso Liverani il lavoro si fosse espanso ed esteso per arrivare in questa sua forma di oggi. Dopo aver superato la soglia fisica di entrata, metaforicamente il visitatore è invitato a superare quella invisibile spazio-temporale che separa l’opera dal mondo, si supera un arco in cui sono esposte, come se fossero una costellazione di rimandi intellettuali, una serie di 12 collages, che ci introducono alla visione di una bronzea testa di Apollo intenta a riflettersi dentro il muro di fondo della galleria che funge da tela infinita. Non possiamo che ammirarne la nuca perfetta, e mentre il Dio guarda qualcosa che a noi è precluso, al centro dello spazio espositivo l’accumulo di memorie, suggestioni e impressioni si solidifica intorno ad un accumulo perfetto di “intenzioni”, come le definisce l’artista.
Tutto è simbolo e l’opera, che è un vero e proprio motore mentale, ci fornisce una diversa percezione non solo dello spazio ma anche della funzione dell’arte con quel cavalletto rovesciato su cui poggia una foto dello spazio espositivo. L’identificazione fra autore, soggetto dell’opera e spettatore è totale e straniante e come un “genius loci” beffardo Paolini riesce ad essere profondamente presente nel suo lavoro proprio, anzi, nonostante il suo continuo negarsi e nascondersi nel trompe l’oeil dello sguardo e della memoria.