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L’Angelo di Leonardo nell’Appennino di Arezzo.

di - 18 Aprile 2001

La grana delicatissima di un carboncino per rappresentare un creatura misteriosa, con il capo reclinato e quel sorriso che ancora non si schiude, che è cifra riconoscibile, ma mai stereotipata, di alcuni dei volti più belli creati da Leonardo; l’Angelo è un androgino, ha il seno piccolo, appena accennato e un panneggio trasparente rivela il membro virile: caratteristiche inequivocabilmente maschili e femminili, fuse in un essere che nessuna specie prevede, che deve trovare origine nel divino o in un tempo che l’uomo non conosce.
È “altro” dall’uomo, pur avendone le fattezze, è perfetto, forse è la traccia dell’idea irresistibile di un’unità originaria, di un’armonia cui non esiste memoria, ma solo il vago sentore. “L’Angelo incarnato” sta sul fondo azzurro della carta, galleggia tra la fantasia e la mitica aspirazione, descritto dal nero che sfuma in variazioni impercettibili, reso finalmente visibile, ma ancora non spiegato.
L’opera, probabilmente eseguita tra l’estate del 1502 e la primavera del 1503, è parte di una collezione privata di Berlino. Presentata in alcune capitali europee, sarà esposta in Italia (l’arrivo è stato assicurato per oltre undici miliardi) grazie all’interessamento di due tra i maggiori studiosi italiani di Leonardo: Carlo Pedretti, riconosciuto come massimo esperto vivente del genio di Vinci e promotore dell’iniziativa, e Carlo Starnazzi, autore di ricerche sul rapporto tra l’artista e il fiume Arno.
Gli stessi studiosi erano stati protagonisti di un’altra esposizione – evento: la Madonna dei Fusi, attualmente in collezione privata, valutata circa 300 miliardi.
A distanza di un anno, un altro capolavoro torna nel luogo in cui, probabilmente, è stato creato.

Maria Cristina Bastante


[exibart]

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