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L’intervista/Tatiana Trouvé | Voglio fare subito un disegno

di - 26 Novembre 2013

Nata a Cosenza nel 1968, dopo una vita nomade in parte insieme alla famiglia, è approdata a Parigi, dove attualmente vive e lavora. Ma da qui Trouvé ha esposto in molti musei e gallerie del mondo. La sua ricerca è segnata dall’idea del doppio e da un approccio molto forte verso lo spazio. Nella mostra romana è sottesa anche un’elaborazione del tempo e della memoria. A cominciare dal titolo “I cento titoli in 36 524 giorni (The hundred titles in 36,524 days)”. Tatiana Trouvé si racconta in questa intervista
Sei nata in Calabria ma vissuta sempre all’estero. Vuoi raccontarmi i tuoi esordi?
«Sono nata a Cosenza da una mamma cosentina, ma quando avevo pochi mesi ci siamo trasferiti in Liguria; poi quando avevo 7 anni siamo andati in Senegal, dove mio padre insegnava alla scuola di architettura».
Era architetto?
«No, professore di architettura. Siamo rimasti in Senegal fino alla fine dei miei studi. Quando avevo 15 anni siamo tornati in Italia, io sono andata a studiare a Nizza, forse perché era la città francese più vicina al nostro Paese. Finiti gli studi sono andata in Olanda, poi a New York e infine mi sono stabilita a Parigi».

Che tipo di studi hai fatto?
:«L’Accademia di Belle Arti, a Nizza. Sono rimasta sempre legata affettivamente all’ Italia, ma la mia formazione è avvenuta in Francia».
Possiamo considerarla la tua patria intellettuale?
«Direi di si. Il mio percorso artistico è cominciato nello stesso luogo dove ho studiato, la Villa Arson a Nizza. Nel 1995 ho fatto lì la mia prima mostra personale, poi ho partecipato ad alcune collettive internazionali, ma il vero punto di partenza lo considero la collettiva al Museé d’Art Moderne de la Ville de Paris a Parigi, nel 2001 curata da Susanne Pagè, che lasciava la sua direzione con quella mostra, intitolata “Ecco il mondo nella testa”. Da lì è iniziata la mia avventura internazionale».
Come hai sviluppato la tua ricerca che ti ha portato alla personale da Gagosian?
«È stato un percorso lungo e complesso. Per dieci anni ho realizzato un solo lavoro, intitolato L’ufficio delle attività implicite, relative alle condizioni intellettuali e materiali di una giovane artista uscita da una scuola d’arte, che non ha una galleria, né uno studio dove lavorare e neppure condizioni economiche per produrre un lavoro, e per sopravvivere deve trovare un altro lavoro».

Con questo lavoro hai rappresentato la tua condizione del momento?
«Esattamente. L’ho fatto con una sorta di ufficio, composto da diversi ambienti, dedicati ad attività diverse: una stanza era dedicata a raccogliere le opere immaginarie e senza forma, e un altro invece riuniva le diverse lettere spedite ad imprese per trovare un lavoro, che aveva assunto connotati kafkiani. Ho condotto questo progetto sull’immateriale per dieci anni, come un work in progress».
Da questo sono nati altri progetti?
«Da questo ufficio sono nati i Folders, ricostruzioni di luoghi dove non avevo mai vissuto basate su racconti, immagini e documenti. Tracce minime che rendono possibile la creazione di spazi architettonici assurdi, installazioni di dimensioni molto particolari. I Folders, nati dall’Ufficio delle attività implicite, hanno preso una forma autonoma e si sono sviluppati come un lavoro a sé stante».
L’incontro con Gagosian quando e come è avvenuto?
«A seguito della mia personale al Beaubourg nel 2008».
La Francia ti ha accolto, mentre l’Italia ti ha ignorato. Per quale ragione?
«Nonostante abbia seguito l’iter istituzionale francese, in Francia mi definiscono sempre italo-francese. Quando faccio mostre importanti in Italia divento italiana, e quando le faccio in Francia francese. Manifesta, la Biennale di Venezia e la mostra da Pinault, a Punta della Dogana. Adesso anche l’Italia si è accorta di me, perché ci sono in programma mostre nei musei italiani. Sono contenta perché amo molto l’Italia, e ci sono artisti italiani che hanno contato molto per me».
Quali?
«Alighiero Boetti per primo, ma anche Piero Manzoni ed altri».

Perché Boetti?
«Ha la capacità di realizzare opere di un’ampiezza e di una profondità enorme con un’economia di mezzi».
In realtà il lavoro di Boetti mi sembra distante dal tuo, almeno formalmente..
«È lontano, ma anche incredibilmente vicino. L’idea del doppio, non basata su una dicotomia tra negativo e positivo, ma sulla possibile unione tra razionale e irrazionale: una lezione molto importante per me».
Veniamo a questa mostra. Come l’hai immaginata?
«Volevo fare una mostra solo di disegni, ma non ci sono riuscita».
Ci sono disegni.
«Sì, ma anche sculture, che sono comunque legate ai disegni. Volevo fare una mostra dove per la prima volta non avrei coinvolto lo spazio espositivo, che in ogni mostra che faccio rivoluziono completamente. Non ci sono del tutto riuscita perché la prima opera esposta, Il guardiano, è incentrata su una sedia di bronzo posizionata in un punto strategico all’ingresso dello spazio espositivo, che sembra controllare tutto ma in realtà controlla soltanto un’altra opera nascosta nel muro, della quale una parte fuoriesce dalla parete. Ancora una volta, ho dato vita ad un nuovo spazio, invisibile ma presente».
Qual è il tuo rapporto con l’architettura, che mi pare molto presente nel tuo lavoro?
«C’è ovviamente un rapporto formale con la modernità, ma per me prima di tutto è la possibilità di accelerare le dimensioni. Un’esigenza meno presene nei lavori più recenti, come nell’opera I cento titoli: una struttura composta da due valige di bronzo, ermeticamente chiuse, che cambia titolo ogni anno. Un’opera iniziata nell’anno della mia nascita, il 1968, che finirà nel 2068. Mi piace immaginare che queste valige, chiuse e pesanti come pietre, continuino a viaggiare nello spazio».

Un’idea molto boettiana …
«Esatto. Il collezionista che lo acquista ha una lista di titoli e ogni anno deve dare all’opera un nome differente».
In che lingua pensi?
«Quella del luogo in cui mi trovo».
Il tuo lavoro ha una dimensione onirica?
«Nel mio lavoro creo spazi, che sono sia onirici che fisici. Non sogni, ma intuizioni. Molto spesso gli incidenti che accadono nel mettere in atto le mie intuizioni fanno scaturire altre opere».
Le tue opere scaturiscono da immagini o da pensieri?
«Non lo so, forse da entrambi. A volte le intuizioni arrivano in maniera banale e molto stupida: un colore, un materiale».
Quali sono i tre libri più importanti che hai letto?
«Il libro dell’Inquietudine di Pessoa, L’Uomo senza qualità di Musil e Moby Dick di Melville».
La tua vita è fatta di dubbi o di certezze?
«Entrambe le cose. Ma senza i dubbi non potrei fare assolutamente nulla».

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