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La decisione della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma di esporre in collezione permanente almeno il 30% di artiste donne ripescandole dai depositi (ricordiamo che le direttrici degli ultimi 80 anni sono state per lo più donne, da Palma Bucarelli a Sandra Pinto, da Maria Vittoria Marini Clarelli all’attuale Cristiana Collu) ricorda una decisione simile presa dall’Assessore alla Cultura di Firenze qualche mese fa: accettare nel 2020 solo donazioni di artiste donne.
Una politica culturale inclusiva che avrà suoi difensori e detrattori, per motivi ugualmente legittimi. Se pensiamo che il Baltimore Museum of Art ha annunciato che nel 2020 avrebbe acquistato opere di sole artiste donne, abbiamo un contesto più esteso in cui inserire queste pratiche di pari opportunità e quote rosa (Marguerite Yourcenar così invocava nel 1976 a proposito di raccolte di scritti di sole donne: “Non ripristiniamo i compartimenti solo per signore”).
Sperando che sull’onda del #metoo non vengano eliminate dai musei dipinti e sculture rappresentanti nudi femminili come avvenuto a Manchester per un quadro di John William Waterhouse, potremmo chiederci se in un ideale elenco di opere offensive dal punto di vista del gender debbano comparire anche i nudi realizzati da donne come Camille Claudel, Tamara de Lempicka, Nathalia Goncharova, Francesca Woodman. Mi si obietterà che ovviamente no, in questo caso il nudo femminile ha diritto di essere perché fatto con il punto di vista della donna e non del maschio dominante e voyeur e via dicendo…
Ne siamo proprio sicuri? Quando nel 1960 si cominciò ad imporre il free jazz, la critica al sistema che veniva da alcuni di quei musicisti (neri, attivisti e politicamente impegnati) era che molti dei loro fratelli di “razza” (come Louis Armstrong o Duke Ellington) fossero sostenuti e favoriti da elité culturali bianche e per questi in buona sostanza si erano esibiti, suonando in locali in cui ai neri stessi veniva impedito l’ingresso. Il colore della pelle non garantiva l’autenticità della musica nera: Malcom X non espresse commenti di approvazione per l’operato di Martin Luther King.
Lo stesso potremmo dire dell’arte realizzata da donne: il sesso non garantisce un punto di vista differente, non esprime automaticamente le ragioni dell’Altro/a.
Garantire quote rosa in un museo è un criterio come un altro di esporre un certo tipo di opere, come prediligere arte astratta su quella figurativa, arte impegnata su quella disimpegnata, paesaggi rispetto ad architetture, Arte povera rispetto a Transavanguardia e via di seguito. Non si garantisce una maggior qualità delle opere (concetto peraltro soggetto a cambiamenti storici), ma si espone solo un criterio diverso.
Il limite che si intravede quindi non sta in ciò, quanto nel fatto che si applica un criterio non estetico né storiografico (la quota rosa) a oggetti e documenti che sono opere d’arte, in cui a contare è il linguaggio, l’innovazione, l’influenza avuta su altri artisti, la forza espressiva e concettuale delle opere. Se la storia (fosse anche per motivi sbagliati) tra 1947 e 1952 ha certificato nel gruppo Forma Uno solo un’artista donna (Carla Accardi), dove le troviamo in questo caso altre quota rosa?
Per ogni Bice Lazzari da riscoprire ci sarà sempre un Mino Trafeli da recuperare. Ma quante Bice Lazzari da riscoprire ci sono? E quanti Mino Trafeli?
Dunque il criterio non può essere quote rosa a priori, seppur è del tutto legittimo per la Galleria Nazionale di Roma aumentare a piacimento la presenza di donne nel museo (parleranno poi le qualità o meno delle opere delle artiste esposte). Anche nel riparare a questo torto, dobbiamo stare attenti a non tralasciarne altri, se no come al solito faremmo ancora una volta il gioco del “dominatore” maschio/bianco/occidentale. Perché non garantire quote minime a italiani residenti all’estero, stranieri residenti in Italia, neri, meticci, musulmani, ortodossi, atei, testimoni di Geova, extracomunitari regolari e irregolari, artisti privi di braccia, diversamente abili o non vedenti, LGBT, queer, cis e fluid, orfani di padre e di madre, etc etc? Fino a dove arrivare con i criteri di inclusione?
Non è forse svilente per l’arte aprire le porte dei musei in base a tipologie di gender, sociali o comunque extra artistiche? Dove sarebbe il merito in ciò? Su cosa si baserebbe il riconoscimento di un artista se questi fossero i valori in gioco?
L’arte piace pensarla sì una forma inclusiva e universale ma che il passaporto sia costituito dall’opera, dalla sua forza espressiva, dalle sue qualità innovative e tecniche, non da forme di anagrafe.
Certo, innegabile la discriminazione della donna nel corso della storia (ma la storia non si cancella né si cambia, tutt’al più si studia), ma nell’arte della seconda metà del XX secolo ha ancora senso parlare di ciò (basterebbe guardare il rapporto tra studentesse e studenti presso le Accademie di Belle Arti, nettamente a favore delle prime)? Hanno forse avuto bisogno artiste come Marina Abramović, Cecily Brown, Jenny Saville, Doris Salcedo, Pat Steer, Tracy Emin, Kiki Smith, Vanessa Beecroft, Mona Hatoum, Barbara Kruger, Shirin Neshat, Pipilotti Rist, Cindy Sherman (e tutte quelle migliaia di “quote rosa” che operano nel campo dell’arte a livelli alti o bassi) di un criterio inclusivo che non si basasse sul merito dell’opera ma sul diritto ad esserci come fossero una specie in via di estinzione, segregata e minoritaria? In molti degli illustri casi appena citati potremmo addirittura osservare che il fatto di essere donne e mostrare la condizione della donna nella contemporaneità le abbia ampiamente facilitate rispetto a colleghe che non hanno trattato questi temi. Dovranno queste ultime allora sentirsi a loro volta discriminate?