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Russia politicamente pop

di - 19 Marzo 2013
Antica area di potere del “piccolo padre” Stalin e nuova terra di Putin; ma anche impero degli zar, luogo del lusso sfarzoso e dell’ideologia marxista-leninista. Una Russia transitata per l’Unione Sovietica e oggi moderno stato federato, custode di visioni formalmente lontane, eppure accomunate da un gap temporale piuttosto ridotto. Nel rigore sabaudo del basso Piemonte, sotto il segno di una costante impronta estetico-decorativo-simbolica, Pierpaolo Koss (Valledoria, 1959) scoperchia un vaso di Pandora che contiene coerenze e incoerenze, vecchiume e modernità, divergenze palesi e assonanze retrograde indicative dell’aria che si respira dentro e fuori le mura del Cremlino.

Con “Moscow Times” (fino al 7 aprile) passano per le mani di Koss posizioni antitetiche che confluiscono in un tempo univoco, segnato oggi come ieri dall’importanza dei suoi simboli retorici e divulgativi, siano essi materiali, gestuali, verbali. Non a caso l’allestimento nel Palazzo del Monferrato consegna al visitatore un’overdose di gadget, immagini e suoni regolarmente esente da momenti di calma o punti morti, nella quale il potere alchemico dei differenti media utilizzati si fonde con l’analiticità di opere significanti e contemporaneamente legate ad una spinta vocazione estetica. Un’estetica che non tarda a mostrarsi di fattura sui generis: come altro si potrebbe definire una scacchiera interamente composta da proiettili e sovrastata da mostrine (con i simboli della falce e martello) convergenti nell’immagine centrale di Lenin?
A questo punto non c’è più alcun dubbio: i lavori di Koss sono portatori di un’estetica tremenda. E attenti che l’aggettivo “tremenda” va qui utilizzato con precisione semantica, cioè (citando il Sabatini Coletti) come “di tale portata e gravità da spaventare”.

Spaventa infatti il dislivello tra oggetto e significato simbolico che Koss è così perfettamente capace di manovrare e portare alla vista; spaventa il contrasto repulsione-attrazione che provocano le fialette di SP-117 (potente psicofarmaco elaborato dal KGB) disposte ritmicamente, come fossero ceri votivi sotto la commemorazione in salsa pop di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre.
Se pertanto la realtà di un territorio (intesa come insieme di oggetti tangibili e di valori ideologici ad esso appartenenti) tramite queste composizioni mixed media va a sconfinare inderogabilmente in una surreale disarticolazione ottico-formale, più o meno lo stesso accade con le istallazioni video, colme di loop che ne inceppano la fluidità. Riproduzioni duplicate o addirittura triplicate – è il caso di Parade – con un’asincronia che tende alla distruzione del messaggio propagandistico-istituzionale di fondo.
Nel continuo dialogo presente/passato spicca Putingrad, che attraverso due proiezioni contrapposte (una in rosso, l’altra in blu) cita la bandiera russa, ma ricorda anche la modernità atavica dei primi occhialini tridimensionali abbinata alle immagini di una Mosca “all’ultimo grido”, metropolitana, zeppa di grattacieli e fortemente dinamica. Va tenuto presente che il colore per Koss è una fede certa, un connotato tipicamente pop che appare quasi endemico, glamour e modaiolo nelle riproduzioni del mausoleo di Lenin; compiutamente mirato nel rosso sangue di Blood Memory.

Ben più elaborato e simbolico – un pop trasfigurato – è quello del video Putin Riot, dove accostando la voce delle Pussy Riot all’immagine di una foto presidenziale in fiamme (ipercromatica e progressivamente multipla) l’artista riaccende il ricordo della preghiera/denuncia anti-putiniana, partita dai presunti brogli elettorali e finita nelle accuse di teppismo e istigazione all’odio religioso. Inevitabili sono le valenze politico-censorie che il caso si porta dietro e tutte ritrovabili in un lavoro “riflettuto e riflessivo”, utile ad innestare un ragionamento (alla luce anche delle condanne definitive) riguardante l’effettiva libertà d’espressione in terra di Russia; questione annosa, che dai tempi dell’Unione Sovietica allo Stato Federato, dagli anni retrivi della dittatura stalinista alla presidenza evoluto-odierna di Putin, si mostra decisamente mutata nella forma, ma molto meno nella sostanza.

L’intolleranza – politica e non solo – presenta il suo conto fatale, lato oscuro di una nazione che evolvendo si svela sempre più malata, affetta da gravi attacchi di xenofobia. Una piaga sociale che per essere messa in luce non implica il necessario ricorso ad immagini di cruda violenza: la denuncia di Koss penetra affilando l’arma della delicatezza ipnotica, riscrive in chiave moderno-bucolica la poesia di due novelli Adamo ed Eva, lui nero del Camerun e lei diafana ragazza russa. New Eden è una performance-video dall’immediatezza disarmante, riuscita perché fa riflettere senza inutili shock. Basta solo alludere, il resto viene da sé. Mostra molto ricca e che mette tanta carne al fuoco. È il caso di fare un paio di domande a Sabrina Raffaghello, co-curatrice assieme ad Ivan Quadroni di “Moscow Times”.

I lavori di Koss giocano sulla facile presa visiva (penso alle immagini dichiaratamente pop o al decorativismo di certi assemblaggi), ma sempre rivolgendosi a tematiche attuali e “forti” (ad esempio la censura o la xenofobia). È difficile “mettere in mostra” questo dualismo estetico-contenutistico?
«Non è difficile, l’estetica è una componente che quando funziona aiuta.
Il difficile, sempre, è avere contenuti importanti, che raccontano una storia o fissano dei concetti. Non basta l’estetica per rendere interessante un’opera ci vuole un percorso di creazione, di idee, di oggettivizzazione di un contesto. Il linguaggio pop è un mezzo attraverso cui raccontare. Fa parte della nostra cultura visiva conclamata e irrompe in un sistema di contenuti “difficili” sistematicamente come agente di disturbo, il quid che spacca l’equilibrio emotivo che rende la scena appetibile, che fa riflettere, sorridere e marca il contenitore di azioni e pensieri dai forti contenuti. Da un punto di vista curatoriale costruire un percorso significa profonda conoscenza dei linguaggi, armonizzazione con la struttura, e in questo caso Palazzo Monferrato è una struttura privilegiata, pensata nel suo restauro per diventare contenitore di eventi e idealizzazione di un messaggio».

Questa è una mostra frutto della vostra autogestione; si sente “abbandonata” dalle istituzioni? Quanto influisce questa autogestione sulla messa in opera dell’evento e sulle scelte espositive?
«Non mi sento abbandonata dalle istituzioni, ma è vero che oggi sempre di più queste, a causa della totale assenza di una politica di industria della cultura, non hanno fondi da destinare a progetti. Non un problema recente, da diversi anni la scena artistica e culturale italiana lamenta delle mancanze sia ideologiche che strutturali, e la crisi non ha fatto che accrescere il problema. Personalmente l’autoproduzione e la totale autonomia diventa un fattore necessario per continuare a rendere possibili e fruibili gli eventi, in attesa di una ormai necessaria presa di coscienza del problema e una realizzazione di un sistema culturale basato su principi di investimento in termini di industria culturale e non di fondi a perdere come soluzione possibili».

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