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Una notte per Ennio Morricone, la magia visionaria di Marcos Morau
Danza
È, la notte, il tempo e lo spazio della creatività, della musa ispiratrice, del dialogo intimo con se stessi. È pure la figurazione della solitudine, del silenzio senza eco, o dell’eco che risuona; della memoria segreta, riaffiorante, malinconica, inquieta, ma anche luminosa, sognante, affollata di presenze. Dedicato al grande compositore Ennio Morricone, autore di indimenticabili colonne sonore che appartengono alla memoria collettiva, lo spettacolo Notte Morricone, ideato, su commissione, dal visionario, geniale Marcos Morau per il CCN/Aterballetto (debutto al Teatro Argentina di Roma, coproduzione Teatro di Roma-Teatro Nazionale e Romaeuropa Festival), è una notte trasfigurata, dove affiora l’estro musicale e la dimensione umana di una persona colta nel suo travaglio di uomo e di artista. L’ampio respiro di questi due indissolubili aspetti è quanto la coreografia riesce a restituirci, lontana, nelle intenzioni, da ogni esaustiva cronografia.
Intrecciando danza, arti visive, teatro e suggestioni cinematografiche, il coreografo valenciano crea una ingegnosa “fabbrica dei sogni” svelatrice di un universo poetico potente, a tratti commovente. Ecco il compositore sdoppiato in due danzatori speculari – bravissimi Giovanni Leone e Leonardo Farina – uguali nei vestiti con pantaloni grigi, camicia bianca, bretelle, capelli lisci e occhiali, e moltiplicato in tanti cloni che si muovono attorno tra fogli, leggii, sedie, carrelli, metronomi, microfoni, e l’immancabile pianoforte.
Sono visitatori, musicisti, sognatori, semplici figure che affollano la mente crepuscolare di Morricone. In gruppo, sdoppiandosi, o smembrandosi per assoli fugaci, corse, e con quei movimenti spezzati, a scatti, incurvati nel ritmo fluido delle giunture degli arti – movimenti tipici e sempre nuovi di Morau -, i 16 interpreti ricreano momenti, azioni, visioni, ricordi, suggestioni cinematografiche e di vita affioranti nella penombra costante della scena – della cui cupezza, tuttavia, alla lunga un po’ si risente – rischiarata da grandi lampade che l’attraversano, e appena da sprazzi di luce al neon o di fari.
Sul palcoscenico sovrastato da una maestosa parete nera – una lavagna vergata col gessetto di note, disegni, schizzi, appunti, che si aprirà a vista modificando gli spazi, trasformata anche in schermo cinematografico dove scorreranno frame di film -, perno dello spettacolo è un piccolo studio di registrazione montato su un carrello mobile con consolle e cuffie, scrivania e tavolo da gioco con gli immancabili scacchi (grande passione di Morricone), e la tromba, l’amato strumento fin da piccolo, col quale si diplomò. Diventa la stanza-rifugio del Maestro nelle intime e creative ore notturne. Da essa, trasportata e fatta ruotare nell’ondeggiare avvolgente delle danze, usciranno voci, suoni, musiche, rumori, e, nella giocosa sequenza che richiama C’era una volta il West, uno stuolo di pupazzi con i lineamenti del compositore in tenuta da cowboy e colt in mano.
I rimandi alle melodie di altri pellicole che hanno fatto la fama di Morricone – Nuovo cinema Paradiso, The Mission, C’era una volta in America, Per un pugno di dollari, Here’s to you cantata da Joan Baez per Sacco e Vanzetti, e intonata da tutti nel finale dello spettacolo -, come anche di canzoni pop o di composizioni sperimentali, li udiamo nella partitura sonora ad hoc (adattamento musicale a cura di Maurizio Billi, sound designers Alex Roesr Vatiché e Ben Meerwein) che scompone e ricompone schegge ed echi musicali riconoscibili, lasciandoci tracce emotive che inseguiamo nella nostra mente.
A commuovere è la voce registrata dello stesso Morricone. La udiamo provenire dall’etere, o dalla bocca del fantoccio manovrato da uno dei danzatori. Sono parole cariche di rimpianti, di sogni, delusioni, aspirazioni, vittorie – come quella degli Oscar a fine carriera, inseguita per tanto tempo e qui resa dalla corsa nell’afferrare dei mazzi di rose lanciati in aria dai danzatori che, giocando, se li passano di mano in mano -.
Toccanti le parole che chiudono lo spettacolo. Tra queste: «Io sono stato Totò, Noodles, Olmo, Stravinsky, Joan, Sergio, Karpov, Maria. Io, Ennio Morricone, figlio del trombettista, ho preso tutto ciò che avevo per fare una musica che desse un senso alla parte che ci manca, alla zona della vita che non vediamo con chiarezza, alle cose che non si dicono». E, in ultimo, la frase ripetuta coralmente dai danzatori: «Volevo sapere come suona un uomo quando nessuno lo guarda».