Apre oggi a Roma la Galleria Eugenia Delfini, in via Giulia 96, con l’inaugurazione della prima mostra personale di Roberta Mariani (1972) nella Città Eterna. La mostra, il cui titolo, “La schiuma dei giorni”, è stato preso in prestito dal romanzo di Boris Vian, è accompagnata da un testo critico di Gianni Garrera. Abbiamo intervistato Eugenia Delfini per saperne di più di questo suo nuovo percorso professionale in veste di gallerista.
Ci tracci un tuo excursus professionale?
«Mi sono formata alla Sapienza di Roma, lo IUAV di Venezia e il Center for Curatorial Studies di New York dove ho studiato storia dell’arte contemporanea, arti visive e studi curatoriali. Mi definisco una curatrice di arte contemporanea e professo questo ruolo dal 2009, anno in cui ho co-fondato il project space Sottobosco a Venezia e ho iniziato a curare mostre e progetti partecipativi.
Dopo cinque anni tra laguna e terraferma, duranti i quali ho sperimentato e lavorato a stretto contatto con gli artisti della mia generazione ne ho trascorsi altrettanti a New York dove invece ho maturato e perfezionato le mie capacità curatoriali e educative lavorando per istituzioni come l’Hessel Museum of Art, il The Drawing Center e il Guggenheim di New York e poi successivamente quello di Bilbao. L’esperienza al Guggenheim è stata la più importante, non solo perché me la sono guadagnata (si trattava di una fellowship con un grosso premio economico che assegnano ad un curatore l’anno) ma perché mi ha permesso di lavorare in un museo internazionale a stretto contatto con tre curatori senior su mostre di alto livello».
Questo di Roma è un ritorno nella tua città natale, per aprire una galleria d’arte contemporanea, dopo anni trascorsi in gran parte all’estero. Come mai questa scelta che rappresenta una soluzione di continuità anche con il tuo percorso professionale da curatrice e nel no-profit?
«A causa della pandemia di covid-19, ho dovuto interrompere la mia esperienza al Guggenheim di Bilbao dove mi era appena stata offerta una posizione nel dipartimento curatoriale e educativo, per cui ho continuato a collaborare a distanza e poi verso la fine del 2020 ho dovuto terminare la mia collaborazione e sono tornata a Roma, mia città natale.
Senza perdermi d’animo e ancora carica dell’esperienza newyorkese e poi spagnola, ho vinto una delle borse di ricerca della nona edizione dell’Italian Council, e due anni dopo, ovvero quest’anno, ne ho vinta ancora un’altra che mi permetterà di svolgere una residenza al The Clemente Center di NY. Nel 2021 insieme e Caterina Riva, direttrice del MACTE di Termoli e l’artista Nico Angiuli abbiamo invece ottenuto il PAC2020 che mi ha permesso di collaborare con il museo molisano per un anno. Terminata questa esperienza, a giugno di quest’anno ho iniziato a cercare uno spazio e ho a metà agosto ho firmato il contratto di locazione per uno spazio in Via Giulia.
Appena tornata a Roma a metà 2020 avevo iniziato a maturare l’idea di aprire un residency program per artisti locali e internazionali, ma la ricerca dello spazio è stata davvero ardua e per una serie di motivi, tra cui il fatto che amo curare mostre e sostenere la ricerca degli artisti che reputo validi, ho dovuto ridimensionare il progetto e arrivare alla conclusione che il formato che davvero corrispondeva ai miei obbiettivi era quello della galleria.
È stata una scelta inaspettata anche per me, ma mi diverte e stimola moltissimo l’idea di affrontare questo mondo non solo da un punto di vista curatoriale e di ricerca ma anche da un punto di vista economico. La trovo una sfida ulteriore che mi permetterà di continuare a scoprire come funziona il mondo».
Quali sono le caratteristiche dello spazio espositivo che stai per inaugurare (metri quadrati, suddivisione degli spazi…)?
«50 mq, soffitti alti 5 m, vetrina su strada e corte interna al palazzo per gli opening. In poche parole, una piccola cappella contemporanea guidata da me insieme all’assistenza di Giulia Centola».
Con quale progetto espositivo inauguri?
«Con la mostra “La schiuma dei giorni” di Roberta Mariani, artista romana, classe 1972 ancora poco nota nella scena italiana. Roberta, infatti, ha iniziato solo nel 2014 il suo percorso artistico e sicuramente gli anni di pandemia non l’hanno aiutata ad emergere.
La mostra include quadri e sculture di carta lavorate con dei pigmenti naturali (come il nero di vite, il verde veronese, il rosso di Siena, la terra d’ombra) e ha come soggetto la piega, ovvero quella forma tanto indagata da Gilles Deleuze che permette di uscire dalla bidimensionalità e di generare dimensioni tridimensionali e se vogliamo anche virtuali. È stato sorprendente scoprire come Roberta pur partendo sempre dal dato reale e lavorando con la tavolozza dei maestri del Trecento e Quattrocento riuscisse a realizzare uno spazio meta-pittorico che a mio avviso ricorda la dimensione del virtuale. Circondati dalle sue tele, infatti, si ha la sensazione di vedere articolarsi lo sfarfallio del monitor, la precipitosità delle immagini, il cambiamento del ritmo e la densità dell’informazione. Nel comunicato stampa non c’è questa mia lettura ma il testo di Gianni Garrera, che accompagna la mostra e approfondisce la ricerca di Roberta, evidenzia minuziosamente la complessità formale del suo lavoro».
Quali saranno gli elementi distintivi della tua programmazione espositiva?
«La mia programmazione espositiva è in progress. Ci sono moltissime valutazioni da fare quando si costruisce un programma in una galleria. Oltre alla qualità della ricerca che si presenta, il fattore economico certamente è una costante ma non dovrebbe mai diventare la priorità assoluta».
Ci puoi già anticipare i prossimi progetti in calendario?
«Seguiranno una serie di mostre personali. Posso solo dire che al momento nel mio calendario un po’ per caso, ma in realtà anche per motivi politici, ci sono molte artiste donne e posso dire che prevedo numerose collaborazioni con critici e curatori e se le cose vanno bene, una fiera verso fine dell’anno prossimo».
Stai per aprire un nuovo spazio espositivo profit dopo una pandemia e in un momento “turbolento” a dir poco per gli equilibri geopolitici e l’economia internazionale. Come immagini in questo contesto l’evoluzione della tua nuova professione da gallerista?
«Questa è la domanda che mi porto appreso da quando ho deciso di aprire la mia galleria. Credo che non rinfangherò tutto quello che ho fatto fino ad oggi. Penso che quello che mi ha formata fino ad oggi sia il punto di partenza per ogni mia scelta futura. La professione del gallerista si può sviluppare in tanti modi, di certo sfrutterò le mie risorse e capacità per instaurare nuove collaborazioni e progettare mostre e formati che rispecchino le trasformazioni del nostro tempo».
Quale sarà, a tuo avviso, in questo momento storico di post-globalizzazione il ruolo della galleria intesa come spazio fisico?
«Mi pare di capire che uno spazio fisico se pur piccolo è sempre d’obbligo. Non riesco ad immaginare una città senza gallerie e una galleria senza città o spazio».
Quali sono le tue strategie digital invece? Utilizzerai e-commerce o piattaforme dedicate (Artsy, ecc.)?
«Non so, questa è ancora una cosa da valutare con calma. Queste piattaforme sono molto costose e fruttano solo dopo anni che le usi e l’e-commerce mi sembra più adatto per altre tipologie di prodotti. Posso però dirti che ho preso questa difficile decisione di fare il sito solo in inglese, proprio perché spero fin da subito di contestualizzare la mia posizione nel mondo e non solo in Italia».
Qual è l’identikit del collezionista a cui ti rivolgi?
«Penso che esistano così tanti profili del collezionista che al momento non sia utile concentrarmi su un unico segmento specifico».
Quali sono gli artisti che rappresenterai?
«Purtroppo, non posso fare dei nomi. Sono in contatto con diversi artisti e artiste sia italiane che internazionali ma ahimè non mi è possibile anticipare nulla. Mantengo alta la suspence».
Qual è, a tuo avviso, lo stato di salute del sistema del contemporaneo a Roma, nel pubblico e nel privato? Quali ritieni che siano a oggi i suoi punti di forza e i suoi punti deboli?
«Questa è una domanda davvero complessa, dico solo che c’è molto molto da fare e che sono piacevolmente sorpresa del fatto che il contesto romano si sia rivitalizzato moltissimo negli ultimi tempi, speriamo che duri!».
Un sogno nel cassetto da neo-gallerista?
«Continuare a contribuire a implementare la conoscenza di chi siamo e dove stiamo andando attraverso progetti di senso e poi costruire gradualmente un gruppo di collezionisti tra i 35 e i 50 anni capaci di comprendere ed apprezzare anche ricerche di tipo sociale e politico visto che l’arte contemporanea si interessa spesso e volentieri delle emergenze correnti».
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