Le mostre tornano a riavviarsi come le auto ferme da mesi nel box. E si ricomincia a viaggiare, divorati da nuovi desideri di bellezza. Il viaggio per Rovigo è lungo, ma la fatica viene premiata dalla visita di una mostra che merita. Anzi, due mostre. Perché proprio di fronte a Palazzo Roverella, dove fino al 4 luglio è possibile andare a “Vedere la musica. Nell’arte, dal Simbolismo alle Avanguardie” troviamo Palazzo Roncale, e al suo interno, con stessa data di chiusura e sponsor, Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, “Quando Gigli, la Callas e Pavarotti…I teatri storici del Polesine” (a cura di Maria I. Biggi), territorio che di teatri arrivò a vantarne oltre 50, alcuni dei quali veri gioielli, come quello di Badia, inizio ‘800, raffinata eleganza e tonalità di verde antico, languido ricordo della Fenice di Venezia prima dell’incendio. Rampe di lancio per grandi voci della lirica, di questi spazi e dei loro protagonisti son presentate testimonianze virtuali e reali, fra cui la chitarra suonata da Steve Hackett nel ’72 al Sociale di Adria, teatro del primo concerto dei Genesis in Italia.
Veniamo ora al piatto forte. Nell’allusione sinestetica, ma ancor più nel suo circoscrivere storicamente l’ambito, il titolo citato legittima la ragion d’essere della mostra. Anche se poi scopriamo non essere stabilito in modo netto il limite di quelle “avanguardie” che s’immaginerebbero “storiche”, se non si andasse a toccare l’astrattismo geometrico di scuola tedesca (Bill, Albers) e milanese (Veronesi). Amenochè lo si pensi come ideale salvacondotto per futuri “aggiornamenti” (e sarebbe bello, magari ripartendo proprio dall’ “aniconico” Bach, qui poco presente, e dai Riflessi sonori del protoastrattista Romani, che tanto ricorda quella fuga bachiana del grande Norman McLaren nei 32 piccoli film su Glenn Gould!). Aggiornamenti, anche perché son passati ormai sette anni da “Art or Sound” (Fondazione Prada, a cura di G. Celant) che si ricorda come tentativo di fare il punto su qualcosa che in realtà continua ad essere in costante trasformazione. Quella di Cà Corner aveva un taglio diverso da questa rodigina, che trova una sorella nella “Kandinsky-Cage” del ’18 a Palazzo Magnani di Reggio Emilia.
180 opere da 38 musei italiani ed europei, curata con competenza da Paolo Bolpagni, la mostra segue il criterio cronologico, ma non in maniera didascalica. Per esempio, si sa, Wagner (1813-1883) vien dopo Beethoven (1770-1827), ma la presenza di entrambi viene sincronizzata nella declinazione delle rispettive ricezioni fra fine ‘800 e inizio ‘900. Ideale trait d’union fra i due, il ciclopico Wanderer-Wotan di Kolo Moser che campeggia nella sezione wagneriana. Dai miti ai movimenti: simbolismo, futurismo, cubismo, astrattismo. E poi i riflessi dell’opera lirica, la cartellonistica, il ritorno alla figurazione. Lungo il complesso percorso espositivo scattano cortocircuiti stilistico-emotivi che suggeriscono un’ulteriore lettura condotta secondo coordinate complementari, riassumibili sinteticamente in alcune categorie. Anzitutto i musicisti, scolpiti o ritratti: ancora Beethoven, in gessi e bronzi importanti (Grandi, Bistolfi, i due Bourdel), e Wagner di Renoir, Busoni di Boccioni. Poi le opere, dalla loro presentazione oggettuale, come l’intonarumori di Russolo con annessa partitura del Risveglio di una città, alla loro interpretazione, che a sua volta può essere fedele o meno all’originale.
Nel primo caso ecco il bozzetto originale della scenografia di Balla per il “balletto di sole luci” Feu d’artifice di Stravinskij del 1917. Il riferimento alle opere rivissute attraverso un interprete non musicale ma esclusivamente visivo potrebbe portare al confronto a distanza, a costo di far su-e-giù per il palazzo, tra i due raveliani Bolero di Dal Molin Ferenzona e Blanc-Gatti, quest’ultimo esponente del Musicalismo. C’è poi la dimensione evocativa. Un ampio spettro stilistico che va, ad esempio, dal 1880 del Sigmund e Sieglinde nella capanna di Hundig di Makart, ove la riduzione della paletta cromatica alle sfumature di grigio e bianco sporco, sempre per rifarsi ad un’analogia musicale, qui riferita alla pratica della composizione elettroacustica, richiama la tecnica del filtro passabanda, fino al 1918 di opere che fanno leva sulla forza del colore, ora compattata in una particolare forma di stilizzazione (l’Evola che si preferisce ricordare più come pittore di Fucina, studio di rumori che come nostrano ideologo di destra), ora lasciata alla sfrenata esplosione del gesto (il Kokoschka de Il potere della musica). Ancora, lavori che guardano alla musica come qualcosa da reinventare visivamente. Tre esempi. Nella grafica, l’”Uniamoci milioni” della Nona di Beethoven, vista da Paunzen come una conica torre di carne umana, o una delle Brahmsphantasien di Klinger: arpista e pianista sullo sfondo di un mare procelloso. Ecco poi l’ulteriore proiezione di un Kandinsky che rilegge a suo modo le pagine musicali di un Musorgskij che già aveva messo in musica in Quadri di un’esposizione di Hartmann: si veda Catacombae, che richiama un noto ritratto di Mahler ad opera di Schoenberg. Ma si può andare oltre.
Al di là dei soggetti – lago di cigni nella stampa colorata di Augusto Majani (1903), rovine lumeggiate da un acceso sole di taglio nell’olio di Vittorio Grassi (1908) -, è proprio il colore, si direbbe la “tinta”, termine caro a Verdi, che in parte accomuna le due opere, sfumature di verde “malato” che suggeriscono, perlomeno in che vi scrive, una fortissima correspondance con il “colore” della tonalità di si bemolle minore del Nocturne op. 9 n. 1 di Chopin da cui entrambe traggono titolo. È davvero stupefacente incrociare una “proiezione” sinestetica proprio all’ingresso della mostra. Peccato non aver collocato, come avviene con Wagner e altrove, l’ascolto del gioiello chopiniano.
Il catalogo, con la qualità editoriale di Silvana, vede più firme del curatore Bolpagni, ma di rilievo anche i contributi di Benedetta Saglietti, che da tempo lavora su Beethoven ed in ispecie sulla sua immagine, e di Fabio Benzi e Jolanda N. Covre. Solo una precisazione: Bolpagni, a pag. 193, se ben intendo fa risalire l’espressione “emancipazione della dissonanza” al 1996, attribuendola a T. Harrison. Va detto che già nel saggio del 1926 Gesinnung oder Erkenntins, è lo stesso Schoenberg a parlarne, e se posso dire, è ben da prima del ’96 (ahimè!) che faccio uso in sede didattica di questa locuzione, ben più corretta dell’odiata (da Schoenberg) “atonalità”.
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