Anche detta “Seinfeld sotto crack”, C’è sempre il sole a Philadelphia è una delle sitcom statunitensi più longeve di sempre, arrivata ormai a quindici stagioni e rinnovata per altre tre; nonostante ciò non perde un colpo e continua imperterrita a divertirci, indignarci e farci riflettere. La serie segue le avventure della cosiddetta “cricca”: cinque amici narcisisti ed egocentrici che tentano di gestire un pub a Philadelphia trovandosi però in situazioni sempre più assurde. I protagonisti sono Mac, il buttafuori insicuro, Charlie, analfabeta alcolizzato, Dennis, sociopatico e vanitoso, Dee, la poco talentuosa sorella di Dennis e il loro padre Frank, ricco e poco incline alla legalità. Il paragone con Seinfeld sembra particolarmente azzeccato perché entrambe le sitcom seguono le vicende più o meno quotidiane di un gruppo di amici decisamente problematici che non sembrano mai imparare la lezione dalle proprie azioni; ma in confronto a quelli di C’è sempre il sole a Philadelphia, i protagonisti di Seinfeld sono delle persone perbene. Infatti, ciò che ha reso celebre questa commedia nera estrema e provocatrice è la sua capacità di trattare temi tabù commentandoli efficacemente e senza banalizzare il discorso: la tossicità dei protagonisti, le trovate sempre più folli, pericolose, illegali e platealmente sbagliate sono sempre fonte di ilarità, ma sono anche il punto di partenza per un’esplorazione psicologica dei protagonisti e un più ampio commento sulla società. In un’epoca di tv fatta di facili moralismi e critiche sociali, una serie come C’è sempre il sole a Philadelphia, da quindici anni veramente a-morale e anticonformista, è sempre più necessaria.
Lanciata nel 2017 e proseguita per due stagioni fino a una sospensione ancora irrisolta, Mindhunter racconta la nascita della Behavioral Science Unit dell’FBI, il distaccamento dedicato all’applicazione di tecniche di indagine psicologica ai casi di omicidio seriale (è proprio in quest’ambito che nascerà il termine serial killer). Si tratta di una serie singolarmente compatta, tanto sbrigativa e netta nei suoi snodi di sceneggiatura quanto curata e uniforme nella resa visiva. La prima stagione, per esempio, vede i protagonisti, gli agenti Holden Ford e Bill Tench e la psicologa Wendy Carr, impegnati in un lungo tour di “interviste” a serial killer sparsi per il sistema carcerario statunitense, allo scopo di studiare i pattern ricorrenti nei loro crimini; ebbene, se tutto ciò che circonda questa attività – le vite private dei personaggi, le dinamiche interne alla task force, i rapporti con le alte sfere dell’FBI – appare quanto mai stilizzato e, in fin dei conti, prevedibile, è invece vero che le interviste, che rappresentano il vero cuore della serie e si susseguono di puntata in puntata con andamento quasi modulare, denotano un vero gusto del ritratto e della variazione: uno dopo l’altro, alcuni dei criminali più efferati del Novecento americano compaiono e si raccontano con le loro parole e, soprattutto, con la loro presenza, formando una galleria di miniature che dispiega al massimo la capacità di sintesi immaginativa della serie. Allo stesso modo la seconda stagione, incentrata sulla caccia al killer dei bambini di Atlanta tra il 1979 e il 1981, si può leggere, più che come un giallo da seguire con il fiato sospeso, come un intenso lavoro di composizione di un paesaggio visivo, di un mondo percettivo, di – per dirla in una parola sola – un mood. In questo senso, una serie pur non impeccabile come Mindhunter merita di essere riconsiderata e rivista.
Il 5 gennaio uscirà su Netflix la nuova straordinaria serie di Nicolas Winding Refn Copenhagen Cowboy, quindi cogliamo l’occasione per consigliare la sua prima incursione sul piccolo schermo: Too Old To Die Young. Il regista danese, diventato celebre negli ultimi anni per i suoi film immersi nelle luci al neon e sempre densi di simbolismo, porta all’estremo la sua poetica e il suo stile in una miniserie rarefatta e visivamente stupefacente. La storia inizia con l’omicidio di un poliziotto corrotto da parte di un giovane membro del cartello messicano che porterà a conseguenze imprevedibili sia per il collega del poliziotto ucciso che per il suo assassino. Spostandosi tra la notturna Los Angeles e il Messico assolato la serie si addentra nel cuore del crimine, tra legge corrotta, membri della Yakuza, organizzazioni malavitose e violenti pornografi. Storie di vendetta e redenzione, inseguimenti silenziosi, riti di iniziazione e strani rapporti familiari: Refn non si pone freni e porta sullo schermo un mondo marcio e patinato in cui tutto è superficie in grado di riflettere le luci colorate sempre presenti. Too Old To Die Young rifiuta la nozione tradizionale di narrazione per diventare puro montaggio di eventi che si sviluppano secondo tempi diversi, grazie a ellissi o dilatazioni che sovvertono continuamente le aspettative di trama. Giocando con i cliché e gli archetipi del genere, ma anche con la durata delle scene e delle sequenze, la serie si stacca dalla propria idea di serialità per entrare in un territorio più ambiguo e poco nominabile in cui si rende visibile l’opacità del linguaggio. Uno spettacolo che non smette di essere allo stesso tempo convenzionale e anticonformista, che non cerca di adeguarsi alla massa di prodotti presenti nelle piattaforme pur essendo pienamente consapevole di farne parte. Refn costruisce un mondo disseminato di simboli, complesso e dall’aria irrespirabile, dominato da un’estetica spinta e allucinata in cui il senso si crea e si distrugge ininterrottamente.
Proponiamo qui un’altra opera di Adam Curtis, autore di cui già si è parlato per Can’t Get You Out of my Head nella prima puntata di questa rubrica. In Traumazone, la sua ultima miniserie uscita quest’anno per BBC, Curtis applica il suo metodo ormai collaudato e recupera quel materiale da reportage che non ha trovato spazio in televisione per innestarlo in una narrazione articolata e cangiante. Qui la zone è l’Unione Sovietica e il trauma è la sua caduta, la resa definitiva del partito comunista e la trasformazione della Russia in quell’impero di oligarchi che mai come nell’ultimo anno è stato al centro del dibattito pubblico; un titolo significativo, soprattutto considerando che Curtis cita esplicitamente la celebre “Zona” della pellicola russa Stalker. Nonostante negli anni si siano viste migliaia di immagini di povertà e violenza ai confini come nel cuore del paese, quelle che danno corpo a Traumazone sono spesso immagini inedite, sia nel senso che sono alla loro prima apparizione pubblica, sia perché presentano dei caratteri di assoluta originalità: che siano perturbanti come i delfini da combattimento sovietici o assurde come le ben più note case dal gusto decisamente kitsch destinate ai ricchi, che siano familiari o del tutto stupefacenti, le immagini di Traumazone risultano spesso proibite, come se non fossero nate per uscire dal grande paese o, in generale, per essere viste; così che addentrarsi nel cuore di questa Russia in pieno tracollo politico e sociale risulta spesso straniante e destabilizzante proprio come la “Zona” di Tarkovskij. Inoltre, scegliendo pellicole che si avvicinano, a volte anche pericolosamente, a vicende specifiche e individuali (la madre che cerca di far esumare un cadavere per riconoscervi il figlio morto in Cecenia, le liti per le razioni di cibo, l’alcolismo di Yeltsin), Curtis riesce a offrire, di questo scorcio di storia recente, un racconto vivido e non stereotipato, che insegna senza banalizzare e inquieta in modo sottile.
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