La storia dell’uomo e politico Aldo Moro e dell’Italia delle BR, il ritorno della serie di Twin Peaks, opera cult e capolavoro intramontabile di David Lynch; ma anche le vicende di un ex marine che lavora come sicario per conto della malavita organizzata (per noi tra le più belle del decennio) e una curiosissima serie che arriva dalla BBC e mescola assieme diversi materiali d’archivio della televisione inglese. In questo esordio della nuova rubrica di exibart dedicata alle serie tv trovate una scelta selezionatissima e eterogenea tra produzioni italiane e internazionali, conosciutissime oppure molto rare.
Una croce di rose rosse iscritta in uno scudo di spine: così, diretta, appare la locandina dell’ultimo lavoro di Bellocchio, un film che ha trovato sufficiente respiro nella serialità . Nelle sei parti che lo compongono, il sequestro Moro è ricostruito, in un fine accordo di trama e analisi, attraverso gli occhi di tutti i suoi protagonisti: le Brigate Rosse, Eleonora Moro, il ministro dell’Interno Cossiga, papa Paolo VI. Ma al centro Bellocchio mette la figura di Moro: rose e spine. il suo Aldo Moro è il santo, è il martire italiano nella magia nera della politica, quella corrotta e senza dio dei suoi colleghi di partito e dei comunisti, è un padre di famiglia dagli affetti misurati ma capace di essere sempre un uomo di cuore, un uomo come noi e perfino un Cristo che porta la croce di tutti i nostri peccati. Marco Bellocchio, però, fin dal suo esordio negli anni Sessanta ha sempre portato avanti un lavoro politico e un discorso sapiente, in particolare nei confronti delle immagini del potere (dal classico I pugni in tasca al più recente Vincere che vede Mussolini come protagonista e il film su Buscetta, Il Traditore): Bellocchio non crede al santo quanto piuttosto alla sua potente eredità mediatica, alle potenzialità di gioco della maschera-Moro. Nel ripercorrere gli avvenimenti non si compone sempre uguale l’immagine del politico compianto ma si decostruisce, la si analizza finemente, la si interroga riscuotendola dalla sua dimensione pacificata e consolidata nella memoria comune del Paese. Bellocchio ancora una volta – e questo non ci sorprende – riesce rigoroso in un’altra storia italiana conservando tutta la complessità delle sue trame e dei suoi simboli.
Si torna sempre a Twin Peaks. La visione che vi proponiamo è la terza stagione della serie che non si è limitata a stravolgere il piccolo schermo ma che ha cambiato per sempre anche quello grande: I segreti di Twin Peaks, una serie televisiva che ha fatto irruzione nelle case degli anni Novanta segnando per sempre una generazione. Il pubblico delle prime due stagioni (1990-1991) fu amplissimo, un evento mediatico indimenticabile, e sono questi stessi 30 episodi che continuano ad essere visti e rivisti anche oggi. Meno nota è invece la terza stagione, ovvero Il ritorno, uscita nel 2017 a 25 anni esatti dall’ultimo episodio storico. Il titolo sembra scontato, ma i risvolti di questo ritorno sono a dir poco entropici, anche per la storia dell’audiovisivo. Ritornano i personaggi, i luoghi, le battute; tantissimi degli attori e delle attrici sembrano non aver mai lasciato il loro ruolo, hanno vissuto nell’ombra della provincia americana ma adesso sono nuovamente chiamati in causa perché il mistero che avvolge la vicenda di Laura Palmer, la ragazza assassinata all’inizio della prima stagione, non è ancora risolto – e mai si risolverà . Nessuno spoiler: è chiaro al pubblico degli episodi di due decenni fa, come fin dall’inizio di questa terza stagione, che a David Lynch poco interessa un semplice giallo. Siamo infatti di fronte a un’inesausta sperimentazione visiva, a un eccesso di immagini e invenzioni alle quali la trama non sembra riuscire a star dietro: infiniti sono i particolari, gli stralci narrativi, i dialoghi che potrebbero suggerirci dei percorsi di senso – ma come seguirli? Le teorie alla ricerca di una spiegazione si sprecano, ma quello che è certo è che Twin Peaks – Il ritorno resta una visione imprescindibile, un saggio per immagini capace di confondere i perimetri della televisione per immergersi in un profondo perturbante che ben dialoga con la sperimentazione artistica più contemporanea.
Barry Berkman è un ex marine che lavora come sicario per conto della malavita: le sue doti da killer gli rendono molto bene nonostante lui sia stanco e insoddisfatto. Quando però viene mandato a Los Angeles per un contratto, si ritrova a seguire una lezione per aspiranti attori e ne viene ammaliato, trovando in quella piccola comunità una possibile via di fuga dalla vita criminale che, però, continua a seguirlo. Bill Hader, celebre soprattutto per il Saturday Night Live, è protagonista, co-creatore della serie assieme ad Alec Berg e talvolta anche sceneggiatore e regista, e si può dire che riesca a eccellere in tutte le vesti, tanto che ha già vinto due Emmy rispettivamente per la migliore interpretazione e per la migliore regia. Barry è un personaggio complesso, tormentato e sofferente, che però riesce a ritrovare una vitalità in quelle sgangherate lezioni di teatro tenute da un attore veterano caduto in disgrazia (interpretato splendidamente da Henry Winkler); allo stesso tempo il suo lavoro come sicario continua, tra bizzarri boss criminali e l’FBI alle calcagna che gli impediscono di vivere una vita normale. Inizialmente può sembrare semplice inquadrare una serie del genere nel territorio della commedia nera, dove il riso nasce da situazioni cupe ma comiche, ma con l’avanzare degli episodi ci si accorge che il limite tra commedia e tragedia è molto più sfumato, se un momento è in grado di farci ridere a crepapelle e quello dopo ci fa scendere una lacrima. Toccando temi come la sindrome post-traumatica, l’abuso domestico ma anche la celebrità e le ipocrisie dello show business, Barry si situa in una zona grigia tra i generi, riuscendo ogni volta a cogliere di sorpresa lo spettatore e sovvertire le sue aspettative. Arrivati alla terza stagione e con una quarta in produzione, non è un azzardo affermare che questa serie ha le potenzialità per entrare tra le più riuscite del decennio.
Questa miniserie di sette episodi prodotta dalla BBC arriva come un meteorite all’inizio del 2021, dopo l’anno più strano del secolo: il suo autore Adam Curtis, che continua a costellare la sua carriera di piccole e grandi perle, si immerge nel mastodontico archivio della televisione inglese per tirarne fuori le immagini più brillanti e quelle dimenticate, i ritagli di pellicola scartati dal montaggio giornalistico. Puro found footage, quindi, e un voice over denso di riflessioni che si sovrappongono alle immagini, ripercorrendo una storia politica del ventesimo secolo attraverso le vite di alcuni personaggi caduti nelle ombre degli eventi (?): dalla moglie di Mao Zedong all’attivista Afeni Shakur, madre di Tupac, alla transgender inglese che lotta per i suoi diritti nel Regno Unito di Thatcher (che nel frattempo dà indicazioni su come stirare i panni a favore di camera). Scomponendo storie ed eventi mediatici, personalità e nazioni, Curtis crea connessioni impreviste che attraversano oceani e riesce così a dare forma ad un’attenta critica dei sistemi di potere e del loro racconto del presente, nonché della macchina capitalista che, anno dopo anno, si estende vorace nel secolo. Questa analisi viene condotta attraverso un impiego straordinario di immagini di repertorio (quasi) mai viste prima, fatte danzare in una colonna sonora eterogenea e intelligente: nella giustapposizione di queste visioni, nel gioco del montaggio c’è tutta l’abilità di Curtis nell’arrangiamento, una ricchezza rara ma capace di apparire fin da subito evidente al pubblico. Can’t Get You Out of My Head è una delle visioni più entusiasmanti degli ultimi anni, un manifesto per il ventunesimo secolo.
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