Ci sono serie tv che catturano, come nel caso di Mad men, uscita nell’arco di quasi un decennio. Ci sono serie che travolgono, come l’irriverente Rick e Morty, diventato ormai un cult, ma anche quelle che sorprendono, come Better call Saul che, nata come prequel di Breaking Bad, è poi diventata un caso a sé. Infine, What we do in the shadows, spiazza il pubblico attraverso la storia di una comunità di bizzarri vampiri narrati con l’espediente del documentario. Che vi vogliate appassionare, divertire o svagare, il periodo di stacco natalizio è il momento ideale per farlo attraverso le serie tv. E qui trovate una accurata selezione.
Serie come questa sono rare. Rarissime. Visione lunga, intensa eppure in questa distensione nulla è fuori posto: ogni scena è orchestrata magistralmente, secondo per secondo, pixel per pixel. D’altronde è anche quello che fanno i protagonisti, newyorkesi di Madison Avenue, sede storica delle più importanti agenzie pubblicitarie, dove il mercato si veste a festa e maghi in gessato e borsalino danno forma alle più geniali pubblicità del futuro. In Mad men si seguono meticolosamente le vicende di un’agenzia in particolare e di chi le dà vita, uomini e donne che attraversano un decennio, entrano negli anni Sessanta come personaggi patinati della vecchia Hollywood, vivono la paura della bomba, l’assassinio di JFK, lo sbarco sulla Luna e l’elezione di Nixon arrivando nel decennio successivo con baffi e capelli più lunghi, dopo tanti tradimenti, figli, feste, whisky e sigarette e, naturalmente, le immagini perfette della pubblicità. Vivendo, più che guardando, Mad men si ha l’impressione di imparare moltissime cose: la precisione maniacale nella composizione di ogni immagine, di ogni storia e di ogni volto permette un’immersione che non è soltanto la trappola perfetta di un mondo altro, ma una trappola buona, una macchina senza fine che continuiamo a saccheggiare, rete di senso da abitare ed esplorare, cura per gli occhi; il design degli interni come quello dell’abito colpiscono ad ogni inquadratura e il loro arrangiamento va di pari passo con la costruzione dei sistemi di senso di questo mondo, dell’intreccio delle vite e in ultima analisi con il dipinto psicologico raffinatissimo dei personaggi che vengono ritratti a tutto tondo, dalla scelta del cocktail alla loro più profonda angoscia. Mad men riesce così in un lavoro di sintesi veramente complesso, capace di tenere insieme l’ampio respiro delle narrazioni seriali con un rigore cinematografico che ne fa una vera e propria cura per gli occhi.
Dieci anni dopo la loro nascita, le avventure dello scienziato Rick e di suo nipote Morty attraverso i multiversi, tra altre versioni del proprio mondo, creature bizzarre e luoghi sempre nuovi da esplorare, non smettono di intrattenere, provocare e attivare il pensiero. Non è semplicemente un cartoon per adulti ma si rivela fin da subito come un oggetto complesso e stratificato, sempre capace di riflettere su sé stesso, sulle proprie dinamiche interne e sulla propria essenza di spettacolo televisivo. Il viaggio tra le varie dimensioni è solo il pretesto per una serie che è sempre in eccesso, in sovrabbondanza di riferimenti, citazioni, archi narrativi che si aprono e si chiudono attraverso le stagioni. Quello che funziona di Rick e Morty è la sua possibilità di essere qualsiasi cosa, di prendere mille direzioni diverse riuscendo a stupire e divertire ogni volta; non c’è limite alle sue potenzialità di intrattenimento e meta-riflessione. Lungo sei stagioni si esplorano le diverse sfumature nella relazione tra i due protagonisti e tra i componenti della famiglia Smith, che spesso viene inclusa nelle folli avventure dello scienziato. Rick è un personaggio estremo, un agente del caos in grado di spostarsi continuamente oltre la propria realtà e, rompendo la quarta parete, di fare da tramite tra la serie e gli spettatori che la stanno guardando. Altamente cinico e disilluso, l’uomo più intelligente del multiverso (o almeno, così siamo portati a credere) è un genio che conosce il senso della vita e cioè che la vita non ha senso: un mantra costante della serie è infatti l’idea di una non-significanza della vita umana, che scompare di fronte alla vastità e alla complessità della realtà. Arrivati alla sesta stagione, Rick e Morty non molla la presa e rimane una delle più geniali e innovative serie d’animazione (e non) mai realizzate.
L’estate passata, mentre si avvicinava la conclusione di Better Call Saul, tra gli appassionati circolava un meme nel quale – per quanto possa risultare penosa la spiegazione di un meme – si derideva l’atteggiamento di quanti, avvicinatisi alla serie con la promessa di una commedia brillante, si fossero poi ritrovati alle prese con qualcosa di molto diverso. È solo un esempio di come quello che poteva essere solo un prequel di Breaking Bad si sia mostrato, negli anni, capace di sovvertire molte aspettative e di ritagliarsi nei confronti dell’illustre, ingombrante predecessore degli ampi e felicissimi spazi di manovra. Il merito, naturalmente, è del multiforme e variopinto protagonista, l’indimenticabile Saul Goodman che, in Breaking Bad, rappresentava con la sua disinvoltura morale un irresistibile momento di comicità anche nel cuore del dramma; ma – e qui torniamo al meme dell’inizio – Better Call Saul riesce a smarcarsi decisamente da questa immagine, ponendo Saul, e a dire il vero tutto Breaking Bad, come un punto d’arrivo da raggiungere con calma, mostrando tutti i passaggi che da Jimmy McGill, avvocato truffaldino ma di buon cuore, portano alla nascita e al trionfo del suo impresentabile alter ego. Lungo questo percorso, la geniale scrittura degli sceneggiatori Gilligan e Gould si mostra capace non solo di riprendere e aggiornare efficacemente le atmosfere narco-western che caratterizzano il filone più strettamente “criminale” della serie, ma anche di spingersi verso territori del tutto nuovi, sperimentando con un genere come il legal drama o affrontando temi come l’amore e la famiglia attraverso le lenti di una raffinata commedia nera. A tenere insieme tutto questo è un lavoro di regia deciso, che rispetto a Breaking Bad mostra – com’è giusto che sia – alcune sensibili differenze (tante inquadrature fisse, in generale un’immagine più posata) ma conserva invariata tutta la sua intelligenza compositiva e narrativa, permettendo a Better Call Saul di arricchire di molto un capitolo già fondamentale della storia della serialità.
Nel 2014, Taika Waititi e Jemaine Clement realizzano Vita da vampiro, basato sul loro omonimo cortometraggio di qualche anno prima: il film mostra le disavventure di un gruppo di strampalati vampiri che vivono nella stessa magione in Nuova Zelanda. Sull’onda del successo di Vita da vampiro, nel 2019 viene creata la serie tv What we do in the shadows, che segue un gruppo diverso di vampiri questa volta negli Stati Uniti. La peculiarità che accomuna il film e la serie è il fatto che siano entrambi dei finti documentari: entrambi, infatti, utilizzano la camera a mano e inframezzano le scene con delle interviste ai personaggi presenti, un escamotage già usato in altre serie come The Office e Modern Family. I personaggi qui sono Nandor, il vampiro più anziano e naïf del gruppo, il suo famiglio umano Guillermo, l’eccentrica coppia formata da Laszlo e Nadia e il vampiro psichico Colin Robinson che, al contrario degli altri, si nutre dell’energia umana tramite la noia. La struttura è quella di una normale sitcom su una famiglia disfunzionale in cui, però, l’elemento domestico si sovrappone a quello soprannaturale, creando dei cortocircuiti esilaranti anche grazie all’impianto documentaristico. L’unione di due immaginari è un’intuizione intelligente che già Waititi avevano sfruttato per fare ironia sulla rappresentazione dei vampiri nel cinema ma che qui, spostandosi sul versante televisivo, trova un campo fertile ed esteso che permette di ampliare ulteriormente l’idea. In ogni stagione agli episodi standalone si incrociano gli archi narrativi più ampi, riuscendo a sfruttare efficacemente tutti i personaggi ed esplorare pienamente le loro relazioni. Il rapporto conflittuale e vagamente romantico tra Nandor e Guillermo, quello passionale e bizzarro tra Nadia e Laszlo ma anche quello tra Colin e il resto dei coinquilini sono solo le basi di partenza per un discorso più complesso e sfumato, che sviluppandosi lungo la serie tocca questioni come l’essere normali nel mondo contemporaneo e cosa significa essere famiglia. Dopo quattro stagioni, What we do in the shadows continua a dimostrarsi spassosa e mai banale anche grazie a un cast azzeccato e sempre in piena forma, ed è decisamente un must sia per chi già ama il genere che per chi non lo conosce ancora.
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