Siamo ormai abituati, oggi, alla mutevolezza delle immagini e dei loro formati: è prassi quotidiana quella di ruotare lo schermo del nostro telefono ogni volta che lo riteniamo utile, per vedere meglio una foto verticale o un video orizzontale. Quella del formato era un tempo una problematica cui badavano solo gli addetti ai lavori e i cinefili, frustrati dai film pensati per lo schermo panoramico brutalmente tagliati ai lati in occasione della trasmissione in tv. Nell’epoca degli smartphone, invece, la geometria delle immagini è un elemento con cui, senza neanche rendercene conto, abbiamo acquisito grande dimestichezza. Di pari passo, anche nel cinema e nella tv contemporanei (due territori come sappiamo sempre più contigui) si assiste da qualche anno a un rinnovato interesse nella questione. Da Xavier Dolan a Wes Anderson – di cui a breve aprirà una mostra alla Fondazione Prada di Milano -, per arrivare all’interessantissimo esperimento di Homecoming, la serie Amazon con Julia Roberts uscita l’anno scorso, di cui è da poco stata annunciata una seconda stagione.
Nella serie, Julia è Heidi, una quarantenne che lavora come cameriera in un bar e conduce un’esistenza insulsa, finché non inizia a rendersi conto di essere stata inconsapevolmente parte di un complotto inquietante. Quattro anni prima era infatti la responsabile di un programma di riabilitazione per reduci delle guerre in Medio Oriente ma ora riesce a stento a ricordarsi i dettagli di quel periodo. Il gioco su cui si fonda la serie sta proprio nello scarto tra le sequenze al presente, tutte girate in formato quadrato, e le scene che si svolgono nel passato, a cui è invece riservato il 16/9 del widescreen. La protagonista dovrà cercare di uscire dal suo quotidiano asfittico e recuperare i propri ricordi e la pienezza del proprio spazio mentale.
Homecoming riflette così sulla memoria, sulla responsabilità e sui meccanismi di disciplinamento sociale, costruendo una trama thriller di sicuro impatto. Ugualmente notevole è la durata degli episodi (basati su un podcast di successo): 30 minuti secchi ed essenziali. Anche in questo caso, i creatori della serie (Micah Bloomberg, Eli Horowitz e Sam Esmail) puntano sulla claustrofobia, per creare un senso di brevitas assolutamente efficace in termini di suspense.
Il cast è ricco e uniformemente ottimo, ma la serie si regge tutta sulla doppia prova attoriale dei protagonisti: da una parte Stephan James, giovane interprete afroamericano dei più promettenti (si veda anche Se la strada potesse parlare); dall’altra lei, Julia, paradossalmente perfetta proprio perché, a un certo livello, del tutto incongrua. Come può una diva bigger than life come lei trovarsi intrappolata nel ruolo di questa donna confusa e insignificante, che manca anche dello spessore tragico di un’eroina autodistruttiva? La presenza ingombrante del carisma di Julia Roberts aumenta il senso di disagio di questo racconto perturbante, Homecoming trova in lei l’interprete ideale proprio grazie a questo pathos dello sfasamento e dell’essere “fuori quadro”.
Prima dell’estate è purtroppo arrivato l’annuncio che Roberts non parteciperà alla seconda stagione (che uscirà nel 2020): la star rimane in effetti troppo grande per incastrarsi nei meccanismi ripetitivi della serialità. Al suo posto arriverà Janelle Monae, attrice e cantautrice assai diversa e con minor esperienza ma, proprio per questo, interessantissima. C’è da augurarsi che questo cambiamento consenta di approfondire l’intreccio tra la manipolazione dell’esperienza e la dimensione dell’identità razziale, già presente in questa prima, appassionantissima stagione.
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