Anche da queste piccole cose ricaviamo una scorta morale, piccole cose come una bella fiction sulle carceri femminili, di quelle che sono oltre modo importanti perché mettono insieme un pubblico sensibilmente adolescente. Gli Stati Uniti d’America centrano la quarta coppa del mondo (quella consecutiva in Francia) l’anno in cui Orange Is The New Black chiude i battenti, arrivando alla settima stagione. In attesa di una serie tv che copra la distanza dallo spettacolista Sognando Beckham, gli sforzi dei produttori sono concentrati su luoghi inaccessibili allo spettatore nella vita di tutti giorni: le carceri.
Una sorta di monografia arancione, giusto per mettere da parte Foucault e lasciarsi prendere da Taystee, Gloria, Reznikov e le altre. Abbiamo convissuto con loro attaccati a uno schermo, in macchina, a letto, sul divano, in bagno, sull’autobus. Ce le siamo portate dappertutto. Le ragazze c’erano sempre, come loro l’una per l’altra. Che tutto sia tratto da una storia vera, poco ci interessa. Quello che abbiamo visto è tutto falso, meno male. Anche perché se le carceri dovessero soddisfare un plot, dovremmo rivedere le nostre abitudini di spettatori affezionati. Ogni puntata di Orange is the New Black si aggira minacciosa intorno ai 60 minuti, dopo la prima stagione te ne fai una ragione. Ognuna delle ragazze è presentata da un ricordo al passato, all’arresto solo quando capita, e ci affezioniamo ancora di più, sappiamo solo di quello che trovano. Sbobba, nemiche e amiche, con scelte narrative che nel loro pescare nel passato (Vee, Carol e Barb direttamente dagli eighties) ravvivano quella serialità alla Desperate housewife, lontane parenti col delitto sullo sfondo.
L’ultima stagione profuma di ciclo dei vinti, c’è del Verga: in Taystee c’è la nidificazione del conflitto, Antigone 2.0 schiacciata al suo destino. E le altre non se la passano tanto meglio, in accordo a una dilatazione delle forze che si deve alla sua forma stessa, sempre più compressa con la penultima stagione, quando il tempo della storia realizza il tempo della serie. Ci sono attrici incredibili là dentro, Occhi Pazzi/Uzo Aduba è degna di rimpiazzare Whoopi Goldberg. E poi ci sono storie, amori che fanno dei giri immensi e poi si trasferiscono. Di queste serie al femminile l’Italia aveva dato natali a Commesse e le cose andavano non troppo diversamente, con le vetrine a fare da sbarre.
Ascoltarlo in lingua permette di cogliere una musicalità che poco si addice al doppiaggio: basterebbe ascoltare per assecondare le immagini e invece leggiamo. Chi l’avrebbe mai detto, costretti a leggere come nei romanzi anche nelle serie.
Ridurre sette stagioni in sempre pochi caratteri è doveroso laddove il prolisso si addice a OITNB, ideata da Jenji Kohan e prodotta da Lionsgate Television fino al 2019. Vederla su Netflix ha il tutto vantaggio di skippare una sigla la cui prolungata esposizione potrebbe soddisfare la proliferazione di earworms.
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Quanta fuffa. Mille parole per non dire nulla.