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Aspettando il nuovo caso di Manhunt, incentrato su Eric Robert Rudolph, terrorista dell’ultra destra e responsabile per l’attentato alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, alcune considerazioni a mente fredda sulla prima stagione, dedicata a Theodore J. Kaczinsky, alias Unabomber.
Benedetta la psicologia di Manhunt: Unabomber
Tutti conosciamo un po’ di psicologia: benedetto il legislatore che ebbe cura di inserire Sigmund Freud tra le cose che, pure se il programma della maturità non lo si finisce mai, non si possono tralasciare. Mettere a disposizione di tutti qualche definizione in questo ambito copre le buche sul luogo comune dell’inconscio. Questa roba avrebbe guadagnato sempre più spazio, intrecciandosi con la ricerca scientifica: entrambe inseguono stancamente l’obsolescenza (chi di una teoria, chi di un dispositivo) non programmandola e sempre più contenuti audiovisivi indagano la psiche, regressione massima al dramma borghese a portata di serie su Netflix.
Il poliziesco domina, porta a galla quella spinta investigativa con cui ci confrontiamo nel quotidiano, quando ci mettiamo sulle tracce di qualcosa, qualcuno, indaghiamo, ricostruiamo, comunichiamo. E non ci stanchiamo mai. Ed ecco perché continuiamo a cercare questa tensione nelle cose che vediamo. E così arriviamo a Unabomb, caso seriale – in tutti i sensi – decisamente sui generis per radicalità della proposta come evidente nel Manifesto del nostro Theodore J. Kaczinsky, LA SOCIETÀ INDUSTRIALE E IL SUO FUTURO.
Manhunt: Unabomber si interrompe al punto giusto, fa venire l’acquolina per poi dirottare su altro. Nessun seguito per questa serie che, sbarcata su Netflix dopo i lidi televisivi, ci mette in scia con Mindhunter, ci avvicina alla scuola del sospetto. Senza dubitare, nemmeno per un attimo, del processo di accumulazione che ce lo porta a casa, come novella per un giorno.