In redazione la aspettavamo con ansia e, adesso che l’abbiamo vista, rivista ed elaborata – in senso freudiano, letteralmente –, abbiamo opinioni un po’ diverse su ciò che è stata la seconda stagione di Mindhunter, trasmessa da Netflix dal 16 agosto. Ce ne parlano i nostri tre binge watcher, Antonio Mastrogiacomo, Domenico Sgambati e Gabriele Toralbo.
C’è sempre un prezzo da pagare
Mindhunter è tornata e la seconda stagione, così come la prima, va “assunta” tutta d’un fiato. Come le benzodiazepine che il nostro agente Holden Ford sarà costretto a ingoiare. Se nella prima stagione i detective sono alle prese coi rimorsi della propria coscienza e i dubbi sui propri metodi, qui le cose si fanno più tangibili. David Fincher e Joe Penhall scelgono di aggiungere un po’ di azione nell’elegante mondo del sottinteso, così caro all’FBI della prima stagione.
Il nuovo capo dell’unità comportamentale Ted Gunn, a differenza del suo scettico predecessore Robert Shepard, punta tutto sui risultati raggiunti dai nostri protagonisti e li lancia nella mischia, sulle tracce di un assassino di bambini afroamericani ad Atlanta. Oltre all’applicazione sul campo delle giovani teorie di Ford e Bill Tench, anche metterli di fronte a difficoltà di vita e famigliari al limite, sarà il pretesto per approfondire la conoscenza dei loro aspetti umani e caratteriali, mostrarci le sfaccettature che prima ci erano rimaste nascoste.
Il prezzo da pagare, per questo cambio di pelle, lo subiranno non solo le figure di Wendy Carr e Gregg Smith, gli altri due membri dell’unità di scienze comportamentali dell’FBI, che nonostante i tentativi di inspessirle resteranno marginali. Ma anche, ovviamente, le interviste ai serial killer, di gran lunga ridotte, che erano state il nucleo del lavoro di ricerca della prima stagione, nonché le responsabili principali del suo successo verso il pubblico.
Le atmosfere e l’eleganza dei dialoghi e delle inquadrature comunque rimangono intatte e Jonathan Groff (Holden Ford), già miglior attore ai Satellite Award, e Holt McCallany (Bill Tench), ci regalano in questi nuovi episodi un’interpretazione ancora più valida e convincente. (GT)
La presunzione del bene
Alla narrazione ritmica e frammentata di una prima stagione in grado di creare aspettative, la direzione monografica della seconda mette subito in chiaro le cose: gestiamo noi trama e intrecci riferibili alla nascita dell’unità sperimentale dell’FBI coinvolta in serialità di altra specie.
C’è la giusta presunzione di fare bene, derivabile dalla produzione Netflix che, sulla scia delle radio commerciali, è solita proporre grandi successi: parliamo infatti del filone più atteso della fiction televisiva, roba per cui casa nostra ha sfornato RIS, dopo uno svezzamento passato tra Criminal Minds e CSI.
A buon diritto dunque ci viene proposta una narrazione che sfugge i contorni della puntata per sfondare i temi di una stagione, spesa nell’insuccesso della spedizione di Atlanta. Non c’è due, senza tre. (AM)
I really don’ t know
Nella serie Mindhunter, Holden Ford, socratico agente dell’FBI, ripete con estrema regolarità questa frase: I don’t know. Forte era lo scoramento della società americana a cavallo tra il Vietnam e il Watergate, tra l’edipico Oswald che spara a Kennedy e Charles “Satan” Manson. Anche la logica comportamentale criminosa (movente-mezzi-opportunità) collassa dinanzi ai casi di Zodiac, Son of Sam, The Family. Così la Dirty Doze di John E. Douglas, l’Holden reale, appronta strumenti di profiling in grado di tradurre enigmatiche scene del crimine in dati quantitativi, schemi comportamentali, tassonomie, questionari con struttura sequenziale.
Il successo di questo approccio non si ripete dinanzi agli eventi del Child Murder di Atlanta (28 casi dal ‘79-’81), descritti nella seconda stagione di Mindhunter. Le pressioni del sindaco nero M. Jackson, che teme un profilo afroamericano, le madri dei bambini scomparsi convinte del coinvolgimento del KKK, il gioco di specchi tra killer e stampa in stile Zodiac. L’ arresto di Wayne Williams per l’omicidio di due adulti arriva come un colpo di spugna. Da qui il fallimento delle tecniche d’ indagine di Douglas/Ford, tarate sulle distorsioni di singoli individui ma non di intere comunità.
Eppure in Smithereens (Black Mirror) i ceo di Fb e Google mostrano di poter profilare chiunque senza schemi, archivi, infobox. Da 10 anni, infatti, lasciamo behavioural residues online, proprio come killer sulla scena. Ciò permette analisi predittive in politica, economia, criminologia. Dopo il ti èstì e il cogito ergo sum, siamo dunque al I know what you will do? (DS)
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