«Non è vandalismo». Vero. È il tempo che non ha rivali nell’ arte della consunzione. L’ uomo osserva i malandati mosaici di Engels, Marx e Lenin. Hanno ancora una loro scintillanza, anche se in technicolor. Siamo nel Buzludzha Monument, un enorme disco di cemento posto a 1.441 m d’altezza, un anfiteatro-mausoleo voluto dal leader bulgaro Todor Jivkov nel 1981. Qui, sul Passo Schipka, alla fine dell’Ottocento, infuriarono quattro battaglie tra le truppe zariste, gli opalchenti bulgari e gli invasori ottomani. In un gioco di specchi retropici, scorrono le immagini di mani intrecciate che sostengono la stella rossa, video e foto di folle festanti, ragazzine vestite in abiti severniashki in occasione dell’inaugurazione. C’è un po’ di tutto, in questo episodio 2 di Urbex Rossa, serie di otto mini-documentari dedicati all’ architettura sovietica, trasmessa dal canale europeo ARTE.
Una monumentalità ingenua, la damnatio memoriae (materiaeque), una certa bellezza casuale, sopraggiunta, benjaminiana. Nebbia perenne, pioggia noir, la natura selvaggia che riconquista spazi, le voci fantasma dei soldati dell’armata rossa, sbiaditi murales di missili, trattori e stelle disegnati da adulti-bambini. Wünsdorf, una intera città dell’armata rossa in territorio tedesco, abbandonata in fretta e furia. La piramide di Tirana, un mausoleo monolitico in mezzo alla città. Il grattacielo dell’azienda Genex che svetta su una Belgrado stile Gotham City. O Petrova Gora, il palazzo di Tito, il dittatore jugoslavo, interamente in acciaio. Vere e proprie Zone che esprimono l’assenza e il vuoto, quando la sproporzione di luce, altezza e volumi di questi edifici rivendicava uno spazio idealmente infinito per le future comunità socialiste.
«Con loro scompare la nostra infanzia». Riesce solo in parte il sapiente gioco registico di affidare la scena a narratori-protagonisti tutti tra i 30 e 40 anni ma non per questo liberi da ricordi ostaligici o da sensi di colpa collettivi. Barbari incapaci di comprenderne significati e funzioni osservano questi luoghi d’infanzia come moderni ziggurat di civiltà perdute. Non tutti abbandonati per la verità, come l’Istituto di Economia di Tashkent, Uzbekistan, l’Ambasciata russa a Cuba e il Ministero degli Affari Esteri a Mosca.
Eppure, in questo mostrare le spoglie della società sovietica nel suo stato crudo, non più intonacato dal Krarsnyy Oktyabr (“Ottobre rosso” ma anche “bello”, “onorevole”) emergono spunti imprevisti, flebili raggi di luce. Una babele di lingue, tedesco albanese georgiano russo serbo ucraino bulgaro, proiezione di una utopia sociale sconfinata, accompagna tutto il documentario. Mosca infatti irradiava concetti politico-sociali e architettonici standard per nulla impermeabili a folklore e stili delle diverse Repubbliche sovietiche: la Torre a “pannocchia” di Chisinau (episodio 8) ma anche le miscele accattivanti del Palazzo delle Cerimonie di Tbilisi in Georgia, il Museo Ilya Chavchavadze di Qvar o il Circo Tashkent in Uzbekistan.
La vocazione di questi edifici tradisce una società “comunitaria”, nelle forme e nelle pratiche. Grandi Opere come il Circo di Chisinau, in Moldavia, le terme georgiane di Shakhtiori (episodi 6 e 4) ma anche la sala cinema “Russia” di Erevan, il centro ricreativo di Druzhba, il Teatro estivo di Dnepropetrovsk. Luoghi ameni, dove sembra riprodursi in scala la dimensione del derevnya, della piccola città di provincia per nulla aggressiva sul piano dei consumi e delle aspirazioni architettoniche, a differenza del metropolitanismo di marca occidentale. Ed è toccante e malinconico lo sguardo di Ronin, artista moldavo trentunenne davanti al vecchio fregio in bronzo di un clown decapitato.
Ma non è finita con la testa del pagliaccio dal ferrovecchio moldavo. Anzi. Dai Grand Park Housing e Triumph Tower di Mosca, passando per le Central Concert Hal e le torri ministeriali di Astana in Kazakistan, o altre strutture più fantasiose come l’Ordos Museum in Mongolia, il Fountain Shopping Mall e il Ýyldyz 5 star Hotel in Ashbat, Turkmenistan, fino ad arrivare al Royal Clock Tower Hotel a La Mecca e al Centro di China Central TV di Pechino. Gocce, stelle, cubi, croci, torri, minareti, piramidi, volumi e forme geometriche possenti, sovradimensionali. La funzione dello spazialità sovietica si è evoluta e ha fatto scuola in Asia, che ha seguito linee diverse dai processi di smaterializzazione/alleggerimento intrapresi più a Ovest (Frank Gehry, Renzo Piano, Norman Foster, tra gli altri).
La potenza totemica, il senso di rivalsa e di meraviglia di queste opere, raccontano di élite aggressive e di un cognitariato orientale work/tech addicted, per alcuni “docile” ma pur sempre individualizzato e nevrotizzato (leggi instabile).
Così Urbex Rossa in definitiva non solo ci mostra la caduta del Gigante Sovietico dai piedi di calcestruzzo ma ci suggerisce anche altro. È importante non quanto sia alta la Torre ma coloro che vi ci abitano. Perché saranno loro, in ogni momento, a decidere se tenerla o tirarla giù.
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