Le video-istallazioni di Raphael Di Luzio meritano sempre una particolareggiata descrizione. L’artista americano è molto attento alla definizione dei contesti di allestimento dei suoi video, assolutamente convinto del fatto che l’ambiente di fruizione dell’opera debba essere opera esso stesso, capace di sollecitare un coinvolgimento totale dello spettatore. Ben oltre il solo atto della visione.
Prima di entrare nella Sala delle Arcate del cinquecentesco complesso monumentale dello Spasimo, i visitatori sono invitati a togliersi le scarpe. Li attende un soffice tappeto di farina bianca e petali di rosa da percorrere a piedi nudi. Procedendo nell’oscurità, ci si imbatte in una sequenza di tre schermi trasparenti a doppia lastra, sospesi a mezz’aria e ripieni di latte, vino e miele. Due differenti proiezioni, da opposte direzioni, li attraversano, sovrapponendosi sulla superficie lattiginosa della lastra centrale, su cui si produce così una terza proiezione. Alla fine del percorso, come traccia labile del passaggio dei visitatori attraverso la video-istallazione, le impronte bianche lasciate dai piedi infarinati rimangono impresse sul tappeto nero che conduce alla porta d’uscita. La Sonata Al chiaro di luna di Beethoven fa da colonna sonora.
Le Stazioni di Di Luzio sono pensate come momenti di un percorso di rivelazione, di verità eterne e sempre attuali. Il sublime romantico delle immagini proiettate, di una natura in violenta trasformazione, è ora maestoso, ora spaventosamente inquietante. È un eterno ritorno all’uguale, specchio di una catastrofe incombente, che nella morte e nella distruzione trova tuttavia la vita, nel dolore e nella sofferenza la forza per una possibile rinascita. A scandire i passaggi di questo percorso di “redenzione”, di maturazione di una consapevolezza esistenziale, è la successione immateriale delle immagini elettroniche, icone-video di una moderna religione.
Ogni elemento naturale ha un suo preciso significato simbolico e rimanda a diverse tradizioni religiose, da quella degli indiani Veda al culto delle antiche divinità Hopi. L’insistenza sui numeri due e tre ha una sua precisa ragione cabalistica e cristologica, cui del resto allude il titolo stesso dell’opera. I modelli letterari e iconografici sono dichiarati e a volte ben individuabili, al punto da lasciarsi tentare dal gioco dei riconoscimenti e delle suggestioni cui l’intero allestimento si affida consapevolmente.
Dal racconto omerico dell’Odissea in cui Ulisse viene esortato da Circe ad offrire un sacrificio alle Ombre, versando latte, miele, vino in una fossa e cospargendo poi tutto di farina bianca, alla stessa maga Circe, liberamente ispirata al dipinto di Waterhouse Circe che avvelena le acque e qui interpretata quale novella vestale dei processi “liquidi” di palingenesi, fino alle più recenti tangenze con Bill Viola: l’impressione è che questa complessità di rimandi -quasi un’ossessione per la citazione colta e ricercata, e a sua volta complicata da ulteriori letture e interpretazioni- stemperi, se non a volte disperda del tutto, la forza di concentrazione delle riflessioni di Di Luzio sulla più scottante attualità. Gli assunti di poetica si esaltano nel crescendo di un lirismo struggente, talora affettato, si abbandonano ad un cedimento languido, ad una dolorosa mistica della bellezza. In cui i margini di responsabilità personale o di capacità di azione sul reale sono neutralizzati dall’abbandono estetizzante, fermato nella raffinata partitura filmica dell’immagine computerizzata.
davide lacagnina
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Farina, latte, miele, vino...
ma il problema è...
Pollo o pizza? Pizza o pollo?
Medita Raphael, medita...
mi ricordo di aver sentito gia' questo nome mixava immagini cn iperattrezzature mac mentre un dj tristissimo ma con il ghigno metteva cd in malomodo.brutta esperienza codesta e adesso ?