In quella stessa “
gloria del disteso mezzogiorno”, evocata dai versi di Eugenio Montale, pare risplendere il grande quadro bianco di
Alessandro Bazan (Palermo, 1966), protagonista di una nuova personale palermitana. Una tela riuscitissima. Tutta risolta nel chiarore zenitale che investe l’ampia veduta urbana: un abbacinare violento, una nitidezza che divora il piano. Tra forme che si dichiarano nell’evidenza adamantina del colore.
L’osservazione dall’alto garantisce una posizione di dominio, un planare dello sguardo che sta tra il furto e la contemplazione. Afferrare tutta la città, rubarne i mille dettagli brulicanti, mai fermi, mai troppo definiti, non del tutto individuati: un’unica corrente instabile investe persone, alberi, palazzi, automobili, tetti, decine di piccole sagome glorificate da quella luce uniforme che non livella le cose ma piuttosto le esalta, le cava fuori, le mette in movimento.
Nonostante questo ininterrotto scorrere, questo scintillio inquieto che qui, come in tutta la pittura di Bazan, innesca un andamento sincopato e accelerato, il candido paesaggio meridiano arriva a comunicare un sentimento d’attesa.
Proprio quella condizione dell’attendere, evocata in fondo alla lirica montaliana in quanto “
gioia più compita”, appare come la misteriosa risultante del quadro. Nell’ombra che manca e nel moltiplicarsi degli oggetti scovati dalla luce squillante – così veri eppure così simili a instabili parvenze – resta il senso di una sospensione assolata. Uno stupore che rende miraggio la visione, che smaterializza il dato e lo mette fra parentesi, che squaglia il tempo e ne arresta la scansione cronologica.
Di fronte c’è un altro dipinto, stavolta scuro, cupo, quasi tragico. Un gruppo di uomini, massa compatta ma irrequieta, si raccoglie intorno a un fatto, forse un incidente: qualcuno è caduto in terra, svenuto o ferito, un corpo abbandonato tra molti altri corpi che provano a sorreggerlo, a capire. Una scena che, nella sua architettura, ricalca memorie manieriste o barocche.
L’informe nugolo di teste, gambe, braccia, appare immerso in un buio opaco. L’aria è pesante, non filtra luce alcuna, lo spazio si contrae. Sembra di sentirlo il chiasso di quella piccola folla, fatta più di ombre che di persone in carne e ossa: silhouette sottili, apparizioni. Qualcosa di spettrale si concentra nella pittura notturna di questa tela, così perfettamente contrapposta allo spazio diurno dell’altra. Come un controcanto, come un’eco asimmetrica. Il mezzogiorno e la foschia, un silenzio assolato di città e il ronzio di una scena a luci spente.
Altre tele più piccole e alcuni raffinati disegni catturano immagini di svariata natura: band jazz o rock; un cowboy che avanza nello sfavillio pastello di una strada vuota, disturbata da velature di pioggia; ritratti di uomini e donne qualsiasi, al centro di paesaggi psichedelici o romantici; interni domestici raccolti nella penombra mesta di pomeriggi afoni, senza suoni né parole.
La pittura di Bazan scivola, veloce e incalzante, sul piano definito della tela. Sfondandone i margini e accordandola con il ritmo sinuoso e irregolare del mondo.