Anni Trenta, età di mezzo. Decennio di dubbi e introspezioni tra le due guerre. E, per l’arte, scenario dai molteplici sviluppi, segnato dall’alternanza mai sopita di temi e ritmi opposti, che hanno scandito la vicenda di una generazione di artisti divisi in maniera esiziale tra la dimensione ufficiale loro imposta dall’urgenza di rappresentare e celebrare il “primato italiano” innanzitutto, e l’esigenza di definire un proprio sistema di valori tanto artistici quanto esistenziali: una dimensione intima anch’essa inficiata dalle pressioni delle politiche sociali del regime.
Interpreti significativi tanto delle utopie quanto delle frustrazioni di quel decennio attraversato da un così distintivo umor nero si riscoprono oggi attraverso la rassegna con cui l’Associazione agrigentina Amici della Pittura Siciliana dell’Ottocento –già da alcune stagioni impegnata a riportare l’attenzione, attraverso occasioni di pubblica fruizione e d’aggiornamento critico, su patrimoni artistici non ancora debitamente rappresentati nelle collezioni pubbliche siciliane– getta uno sguardo nuovo sui protagonisti siciliani della pittura e della scultura che valicarono lo Stretto aderendo alla disciplina sindacale dell’Italia fascista.
Gli artisti che la mostra riunisce sentirono dunque come ferite aperte sulla loro pelle gli ossimori della cultura ufficiale, tra le cui pieghe, però, in molti seppero ritagliarsi spazi per aperture alternative e radicali. Le posizioni assunte sono fra le più diverse: da produzioni allineate a orientamenti di stile ufficiali –sarfattiani per Amorelli e Aligò, bontempelliani per Alberto Bevilacqua, Elio Romano, Pina Calì, Esi Razeto ed Elena Pirrone-, si passa così a linee di ricerca più personali –plasticità espressiva e spregiudicata, nel caso del Lottatore di Buscio o della Raffaella al mare (1934) di Ida Nasini Campanella– fino a determinazioni non di rado polemiche, condotte con spirito frondista più o meno tenace e patente. È questo il cas
Lacerati tra l’aspirazione ad un nuovo ordine sociale, che per un istante credettero di veder incarnato dal fascismo, e un senso morale che li condusse rapidamente a respingere le strettoie del regime che anche l’arte contribuì a instaurare, questi artisti si misurarono con un’immagine della Sicilia ancora attraversata dai segni esaltanti dell’esperienza del gruppo futurista palermitano, di Corona e in primo luogo di Rizzo, presente in mostra con un’opera del 1930, Selinunte, dalle sospensioni addirittura dechirichiane. Un’immagine tuttavia da rimettere completamente in gioco, nel confronto col mondo moderno che stava deponendo ogni fiducia nel progresso e nell’elaborazione di miti adeguati al presente. Anche a costo di sostenere il peso di una realtà all’improvviso estranea: un mondo di oggetti e maschere.
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vincenzo ferraro
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