Non pago dei costi interamente a proprio carico dei restauri della Cappella Palatina di Palermo, Reinhold Würth, magnate tedesco e appassionato cultore d’arte, ha siglato con l’Assemblea Regionale Siciliana, un accordo che prevede, per i quattro anni della durata dei lavori nella cappella, un programma di grandi mostre con opere in prestito dalle proprie collezioni. Per dare risalto e massima visibilità all’iniziativa, si è deciso per il debutto di puntare sul sicuro successo dell’ormai consolidata formula capolavori dell’impressionismo e dell’espressionismo.
Nell’allestimento del Salone del Duca di Montalto insolitamente luminoso rispetto alle tetre soluzioni cui le ultime esposizioni ci avevano abituati, la prima sezione della mostra, dedicata alla pittura impressionista, brilla unicamente di uno sparuto numero di opere: la pastosa variazione sul tema della Gare Saint Lazare di Monet, il già post-impressionista Porto di Le Havre di Pissarro e il melanconico paesaggio crepuscolare dell’anglo-parigino Sisley. Il suo Tramonto a Moret è opera del 1892 e come tale appare in tutta evidenza più vicina alle coeve ricerche simboliste, nella sintesi di una pittura stesa quasi in maniera omogenea, su piani orizzontali compressi e già in qualche modo astratti.
Se dunque i tre pur bellissimi dipinti citati non rendono esattamente giustizia di ciò che fu l’Impressionismo francese in senso stretto -a meno di non volere ammettere a maglie larghe, all’interno di questa categoria, i molti Liebermann, Purrmann, Engelhart, Corinth, Le Sidaner, Rohlfs e Baum esposti- è invece una vera e propria carrellata di capolavori dell’avanguardia storica tedesca la seconda parte della mostra.
Si parte da un Kupka del 1906 ancora figurativo, ma già lirico ed evanescente come nella sua successiva produzione astratta, per arrivare al Nolde dei paesaggi incendiari e tutti precipitati in avanti, sulla superficie grumosa della tela. C’è il Kirchner degli idoli primitivi, dei ritratti taglienti come sagome di lamiera e delle piazze dalle prospettive deliranti; e c’è il triste Circo dell’umanità di Macke. Seguono a ruota una straordinaria Natura morta della Epstein, il mondo interiore e drammatico della Münter, già compagna di Kandinsky, e le maschere drammatiche di Jawlensky, dalle espressioni alterate da innaturali colori acidi.
Ultime, in ordine di cronologia, sono le incisive tele di Beckmamm, in cui approda a lucida consapevolezza il racconto frammentato e doloroso dei primi decenni del XX secolo. Le forme più mature e composte di questa sua produzione tarda, votata per certi aspetti alla conquista di una moderna classicità, appaiono pronte a sfaldarsi comunque, nella percezione sottile di un mondo affatto interiore che solo trova sfogo nell’espressione dell’artista. Di questa desolata condizione esistenziale può essere assunto, quale eloquente manifesto, l’immateriale ripiegamento de Il Vampiro di Munch, in mostra in un’interpretazione del 1917.
Il catalogo (in italiano, inglese e tedesco), con qualche imbarazzante svista redazionale e altrettante incertezze nella traduzione, è in realtà da considerarsi più una guida alla mostra, per il carattere squisitamente divulgativo del testo introduttivo e delle note ai dipinti.
davide lacagnina
mostra visitata il 12 febbraio 2005
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