Essere una leggenda del rock e non averne l’aria. Insofferente ai precetti e alle lusinghe dello star system, sempre controcorrente,
Don Van Vliet (Glendale, California, 1941) abbandona la scena musicale nel 1982 per ritirarsi nel natìo deserto californiano del Mojave. Don Glen Vliet, questo il suo vero nome, è un personaggio fuori dal comune. Uno di quelli che scelgono di calpestare i margini, di uscire fuori dal tracciato e invertire ogni direzione nota. E di lasciarsi etichettare da critica e mercato Don Van Vliet, in arte
Captain Beefheart, non ne ha mai voluto sapere. Nella musica come nell’arte. Il geniale “Capitano cuor di bue” -nome rubato al titolo di un film ideato con l’amico
Frank Zappa e mai realizzato- sfornò nel ‘69 quello che sarebbe diventato una pietra miliare della storia del rock, un disco di rottura:
Trout Mask Replica mischiava jazz, blues, free rock, dadaismo e rumorismo affondati in schizofreniche e disarticolate dissonanze, il tutto cucito insieme dalla voce indisciplinata del Capitano. In breve: avanguardia pura e schietta, priva di retorici intellettualismi.
Ma la vocazione per la musica correva parallela a quella per le arti visive, passione privata coltivata fin da ragazzo. Dopo l’uscita dalle scene musicali, Van Vliet si dedica a tempo pieno alla pittura. Apprezzato da importanti gallerie europee e americane, compie una rapida ascesa, arrivando a esporre in diversi musei internazionali.
Giunge così a Palermo una mostra preziosa che raccoglie una selezione di dipinti su carta prodotti nel corso degli anni ‘80. La pittura di Van Vliet è energica, calda, vibrante e sudicia, come la sua musica. Convergono anche qui molteplici influenze, rielaborate in un’originale avventura cromatica. L’informale di
Franz Kline, l’action painting americana, il neo-espressionismo ma soprattutto il surrealismo espressionista del gruppo Cobra nutrono l’immaginario dell’artista, che immerge il suo universo di simboli e figure in una maglia pittorica a tratti liquida, a tratti densa, a tratti eterea.
Il segno nervoso s’addolcisce nelle curve e nelle campiture dinamiche che strutturano forme caotiche. Animate da una gestualità lirica e insieme selvatica, le pennellate danno spessore a entità vagamente zoomorfe, antropomorfe o fitomorfe, immerse in un processo che le sfalda verso un’astrazione pulsante. Quella stessa violenza asciutta, senza tempo, che dal deserto californiano giungeva a inzuppare le folli canzoni di Van Vliet, ricompare sovente nella sua pittura sotto forma di una sconfinata purezza visionaria: paesaggi dal sapore mitologico galleggiano su un bianco assoluto ed assolato, piano dell’inconscio da cui lasciar affiorare istintualità primordiali.
Una piccola mostra-gioiello, quella palermitana, che ripropone il talento di un personaggio unico, poeta del caos e di un primitivismo sinestetico da cui si generano immagini gonfie di ritmo e suoni squagliati come colore.