Un piccolo teatro barocco, nel cuore della Sicilia orientale. Noto, cittadina in provincia di Siracusa, presta uno dei suoi gioielli architettonici all’arte contemporanea, per un evento misurato, contenuto, come un ricordo raccontato a bassa voce. Questa mostra è una nota aliena all’interno di un contesto fortemente connotato, un intervento che rompe ma che non stride, non calpesta, non eccede. Formula che procede per contrasti ma anche per insospettabili armonie. E’ tutto molto zen. Dai contenuti, all’allestimento, alla concezione generale del progetto.
Così, sul palco, dietro le quinte di velluto rosso, una storia va in scena: pochi passaggi visivi, le linee essenziali delle foto appese, tre atti brevi. E’ una storia antica che affonda le radici nel sacro, una rappresentazione muta, un archivio della memoria, il reportage poetico di un rituale avvenuto.
Lui c’era, Zhang Huan, sulle montagne del Tibet. C’era, durante la cerimonia, con i parenti e il sacerdote, mentre i vivi celebravano i loro morti, mentre i corpi inanimati si porgevano ai gesti amorevoli e feroci degli officianti. Corpi a pezzi, restituiti alla natura in transito, corpi morti e smembrati, metodicamente, con devozione, come in una liturgia lentissima. E poi lasciati lì, sulle cime silenziose, pronti a disperdersi e a ricongiungersi con le cose. Divenuti cibo per le aquile, aspetteranno di staccarsi dal suolo, appesi agli artigli dei rapaci. Sulla terra cadranno frammenti, residui inessenziali dei defunti, quello che resta e che ritorna: ossa, lembi di vestiti, oggetti caduti dalle tasche, monili, scarpe.
La fotografia di Huan non ha registrato il rito. Non l’azione, non il sangue, non l’osceno che resta nascosto, per definizione. Le immagini –disposte con rigore geometrico, cinque file da sei sulla quinta destra e tre gigantografie sul fondale- si soffermano sul “dopo”, sulla superficie, sul dettaglio, sul cambiamento infinitesimale che testimonia un ciclo vitale in atto. Fotografie che descrivono un paesaggio modificato, scattate rigorosamente dall’alto, come studi cartografici. Le piccole parti precipitate a terra hanno rimappato la zona circostante, determinandone una nuova identità estetica, materiale e spirituale. E’ nelle tracce emerse, nei segni ricomposti, che un corpo –un testo, un rito, un atto, una memoria- prende significato e si rivela. Là dove l’organismo non c’è più (se mai c’era stato). E intanto, l’occhio estetizzante dell’artista consegna l’oggetto a un equilibrio cromatico e compositivo, scovando la bellezza dentro ritagli casuali d’esistenza.
Sulla quinta di sinistra, disposte nella medesima regolare sequenza, ci sono le immagini di un altro ciclo. Ancora un paesaggio che si modifica naturalmente, montagne di sterco d’animale accumulatosi nel tempo, duro come roccia, bruciato dal sole, stratificatosi fino a creare nuove propaggini del terreno. Un’operazione involontaria di land art, con tutta la bellezza selvatica della materia che si evolve.
Zhang Huan, per questo progetto inedito, ha scelto di lavorare sul concetto di alterazione della natura non più in veste di performer, ma come narratore. Il suo sguardo si è fatto elemento performante, nel momento in cui ha raccolto un processo e gli ha dato immagine e voce. Trasformando l’informe in una pausa circoscritta di contemplazione.
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ma se non ci sono i Saccardi o Abbate le mostre non le andate a vedere?
NO!!!!!!!!!!!!!!!vacci tu......
morimura sei cosi' invidioso?