Riconosciuto maestro dell’arte naif italiana, Antonio Ligabue incarna il ruolo del protagonista appartato, solitario, di outsider. Nessuno meglio di lui ha saputo dare segno e dignità ad uno stile pittorico fino a quel momento ai margini, forse neanche ipotizzabile se non come innocente mania, approdando ad una formula pittorica che oggi non abbiamo difficoltà a definire “colto candore”. Una spiegazione ossimorica che bene sintetizza i poli di una maniera che sa essere al tempo stesso personale e aggiornata, sorgiva ed informata. Al contrario “naif” è termine di accezione comune, al tempo stesso onnicomprensivo e categoriale, potenzialmente equivoco, che tende ad assimilare artisti diversi, accomunati solo dall’apparente estraneità all’arte (come se questa possa nascere e svilupparsi solo come mestiere e non sia piuttosto una necessità impellente, un bisogno interiore). Le vicende storico-critiche di artisti come Ornèore Metelli, Francesco Di Terlizzi e dello stesso Ligabue dimostrano l’inapplicabilità e la parzialità definitoria del termine.
Com’è noto Ligabue si è formato da autodidatta ma non può essere definito un incolto, almeno nel senso più vasto del termine. Forse lo era in ambito letterario, storico e critico, ma di certo non lo era in quello visivo. Nativo di Zurigo ebbe di sicuro la possibilità di conoscere temperamenti espressionisti, da Van Gogh a Kirchner, mentre la stima e la vicinanza dello scultore Marino Mezzacurati dovettero svelargli i traguardi della Scuola Romana.
A trent’anni dalla monografica allestita a Begheria, in Villa Palagonia, più sentimentale che scientifica, la mostra “Antonio Ligabue (1899-1965). Tormenti e incanti” (catalogo Gangemi Editore), curata da Sandro Parmeggiani e promossa dalla Fondazione Federico II di Palermo e dalla Fondazione Ligabue di Gualtieri, ordinata nel capoluogo siciliano fino al 18 settembre, penetra con rigore filologico la complessità della pittura del maestro emiliano, raccontandone al meglio il fecondo immaginario e quel suo modo unico di vedere il mondo.
Oltre ottanta opere tra dipinti, sculture in bronzo, grafiche e disegni, delineano con rara efficacia un percorso travagliato ma di impeccabile coerenza. Lavori scelti con sano discernimento tra decine di collezioni private, in grado di rendere merito all’imprevedibilità del genio, all’accidente della visione. Tra le opere esposte anche quattro dipinti inediti, alla loro prima esposizione, databili tra i primi anni Quaranta e il decennio successivo: Volpe in fuga col gallo in bocca, Cavalli, Leopardo con Antilope e Rapace. Il merito della riuscita della mostra è nella qualità intrinseca delle opere ma anche nell’allestimento, ben strutturato, diviso in tre sezioni cronologiche, dal 1929 al 1962, una per decennio (1929-1938, 1939-1952 e 1952-1962). L’ultima è la più corposa, con oltre trenta dipinti e una sottosezione dedicata all’attività grafica.
Ritratti, nature morte, scene religiose (poche ma significative testimonianze di fede), paesaggi e scene di vita agreste e soprattutto animali, la sua vera passione, da cortile o esotici, collocati in scenari lussureggianti, a volte associati o invertiti nei ruoli, infuriati i primi, mansueti i secondi. Ligabue studiava accuratamente l’anatomia degli animali che rappresentava, così come le loro posture nelle fasi della caccia o del lavoro, desunte dall’osservazione diretta e da varie fonti iconografiche (le figurine Liebig, La vita degli animali di Brehm, la frequentazione dei Musei Civici di Reggio Emilia), reinventando il dato fenomenico in una pittura visionaria e decorativa (si vedano i mantelli degli animali, la vegetazione, le carte da parati negli interni, i tessuti delle giacche). Tanti anche gli autoritratti, per i critici un capitolo di amara poesia, in cui l’artista si è raffigurato sempre di tre quarti, con pupille vispe e sguardo attento, ma carico di solitudine e disagio esistenziale, per il curatore “un’esplicita, orgogliosa dichiarazione del suo valore d’artista e della sua identità di persona umana, spesso dileggiata e irrisa”. Pennellate dense e rapide compongono le immagini con risolutezza mentre una spessa linea nera delinea le forme, rendendo palesi le assonanze alla tecnica cloisonné e alla pittura di Van Gogh, trasposizione visibile dell’estraneità ad un mondo che stentava a comprenderlo, asserragliato nella sua presunzione di normalità.
Una mostra filologicamente condotta che rivela una coerenza di stile, oltre che una straordinaria visionarietà e una felicità di intuito. Un’esposizione pienamente riuscita, che finalmente segna un punto sulla conoscenza di Ligabue, artista ribelle, incompreso e tremendamente amabile.
Carmelo Cipriani
mostra visitata il 5 agosto
Dal 19 marzo al 18 settembre 2016
Antonio Ligabue. Tormenti e incanti
Sale Duca di Montalto, Palazzo Reale
Piazza Indipendenza, 1, 90129 Palermo
Orari: dal lunedì al sabato dalle ore 8.15 alle ore 17.40. Domenica e festivi dalle ore 8.15 alle ore 13.00.
Info: 091 626 2833, direzione@federicosecondo.org