Tutta una gamma di motivi riconducibili all’esistenzialismo del Novecento, quali la solitudine, l’angoscia e, in particolar modo, la “finitudine” dell’essere e dell’esistere emergono dalle tavole iperrealiste di
Emanuele Giuffrida (Gela, 1982), dalle garze sudate di cromi vivi di
Roberta Savelli (Giussano, 1969), dai gialli e dai rossi di
Marina Giannobi (Monza, 1965), dalla freddezza straniante del bianco e nero di
Rosario Antoci (Ragusa, 1966).
La cifra comune di questi lavori, visivamente così diversi tra loro, risiede dunque nel concetto di esistenza. Ed è proprio intorno a tale rapporto che, più di ogni altro suo collega, sembra tessere i suoi arcani Giannobi. L’artista, silenziosa osservatrice -o testimone passiva, come ama definirsi- cattura le distorsioni del reale attraverso l’inganno dell’obiettivo fotografico, rivelando in una scia di nuance-particelle il permanere sfuggente dell’esistenza. Nelle sue opere, quasi tutte di grandi dimensioni, le figure umane appaiono in movimento, quasi in corsa, attraversate da fasci di luce che le pongono in primo piano, mentre sullo sfondo permangono ampi spazi, vuoti o affollati, d’indefinita fisionomia.
Savelli rivolge la sua attenzione a quel particolare momento dell’esistenza umana che è l’adolescenza. Primi piani di ragazzi, poco più che bambini, si stagliano su squillanti fondi neri o azzurri, realizzati con un’impalpabile garza che mette a nudo, attraverso il rosso vivo dei contorni, l’aspetto più recondito dei soggetti. Il dato psicologico è rivelato dagli sguardi seri e intensi, che anticipano l’identità futura di bambini precocemente consapevoli della propria corporeità , mentre movimenti impercettibili tradiscono un’emotività non ancora addomesticata. Tre grandi tavole a olio di Emanuele Giuffrida narrano di assoluti silenzi, di deserti dell’anima. Qui l’esistenza è ravvisata nel modo d’essere dell’individuo e non nell’oggetto esterno rappresentato, tanto virtuosisticamente quanto artificiosamente. Incursioni polimateriche nel tessuto pittorico, come l’applicazione su una bottiglia d’acqua della riproduzione meccanica dell’etichetta originale o l’applicazione di strati di silicone sul quadrante di un orologio a muro, sono elementi volti a testimoniare la differenza fra realtà e necessità dell’esistere.
Rosario Antoci ci riporta nuovamente all’essenzialità delle cose e alla loro capacità di farsi racconto. Nei suoi soft banner, fotografie di grande formato cucite come una soffice trapunta da letto celano spigolose architetture. L’influenza della scultura organica, presente nei primi lavori, è ancora forte e ben visibile nell’articolazione linguistica dei segni architetturali in pulsioni biologiche. L’esistenza in Antoci assume una conformazione inusuale e impervia; attraverso il suo occhio meccanico, la materia inerte -l’ardesia delle tegole di un capannone, il porfido sgretolato di un selciato, le pareti traslucide di una rimessa chiusa- respira di una nuova organicità , diventando bioarchitettura.