Il centro della galleria è interamente occupato da una scultura di finestre, tenute insieme da cerniere metalliche. La cornice è ritoccata o colorata, il vetro è dipinto di nero, diagonalmente, come modificato da un segno che assorbe e devia la visione. Sono finestre vecchie, che in un tempo altro hanno abitato una stanza, posseduto un paesaggio. Ma ora, divenute opera, perdono la propria funzione: tentano di farsi oggetto, corpo unico, attaccandosi fra loro; ma le cerniere, di nuovo, rimandano a un’immaginaria instabilità . L’imponente scultura di
Pierluigi Calignano (Gallipoli, Lecce, 1971; vive a Milano), costruita ad hoc per la galleria, non sarà mai più identica a se stessa, ogni volta diversa in relazione ai luoghi che l’accoglieranno.
Pare che le finestre stesse si adoperino in un goffo tentativo di farsi scultura, esperimento di cui l’artista è consapevole direttore: si sostengono l’un l’altra, si fanno tridimensionali, ma sono troppo grandi per lo spazio. Il consueto approccio contemplativo all’oggetto scultoreo viene così negato allo spettatore, obbligato a confrontarsi con l’ingombrante presenza. L’intera l’installazione impone un ritmo insolito, pungolando la consapevolezza della presenza fisica nello spazio.
Una serie di fotografie ha per soggetto le luminarie delle feste del sud Italia, trasformate in giocattoli psichedelici grazie a un gioco di sovrapposizione. Ricordano vetrate gotiche o strani frattali stampati con un margine d’errore. Un lavoro da cui trapelano le origini geografiche di Calignano che, come molti dei migliori artisti milanesi della sua generazione, arriva dal profondo sud.
Dipinti monocromi su cartoncino intervallano le foto secondo un ritmo cadenzato ma leggermente irregolare. Taluni sono piatti, neri o grigi, ricavati dalla pulitura di un rullo e installati ad angolo. Altri sono monotipi realizzati con lo stesso principio delle macchie di Rorschach: il foglio, piegato ben otto volte, produce bizzarre forme circolari. Come il famoso test psicologico, i
Rotanti rimandano ognuno a diverse possibilità di senso. Il primo pensiero va all’Opera aperta di Umberto Eco, ma ogni possibile teoria viene immediatamente negata da quella concretezza e povertà di mezzi tipica del lavoro di Calignano, che riporta al meccanismo del fare arte e al sentimento palpabile dell’opera vissuta come “oggetto”.
A rendere le cose ancor più complesse e folli è un corto circuito geniale, relativo alla fase di produzione: l’atteggiamento maniacalmente artigianale dell’artista convive con l’impossibilità di controllare il risultato. Da ogni lavoro trapelano una precisione e una cura da orologiaio. Lui studia, progetta e costruisce. Ma il risultato finale è inevitabilmente determinato dalla casualità della piegatura del foglio o dell’imperfezione del rullo.
Come un Don Chisciotte, Calignano si fa paladino del tentativo di comprendere e restituire il perché dell’arte. E lo fa scontrandosi ironicamente con i giganti del pensiero e della prassi creativa.
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mostra molto bella.
pierluigi calignano è uno dei migliori.