Sono trentasei in tutto le opere di Giacomo Manzù (1908-1991) in mostra a Palermo: disegni a matita, tempere, acquerelli, opere di grafica, acqueforti e acquetinte realizzate fra il 1952 e il 1983 a casa dell’artista, ad Ardea, nella riservatezza di un ménage familiare privatissimo ed esclusivo, tutto compreso fra gli affetti più intimi e l’incondizionata passione per la moglie Inge.
S’intuisce subito, già da uno dei più antichi fogli a lei dedicati, Profilo – Alla mia Inge (1955), che non si è di fronte al Manzù scultore dei celebri complessi monumentali a carattere sacro, dei cardinali e dei portoni d’ingresso a chiese e basiliche, ma alle pagine personali di un silenzioso dialogo a due, in cui amore ed eros sono varianti ordinarie di una quotidianità “religiosamente” vissuta. È Maurizio Calvesi, curatore della mostra, a descrivere in questi termini i sentimenti di
Di fatto, ad uno sguardo meno disincantato, e meno scandalizzato di quanto non imporrebbero le commissioni ufficiali da parte del Vaticano, come quella per la Porta della Basilica di San Pietro del 1947, risulta del tutto evidente la continuità di stile e di poetica fra le due diverse posizioni. Il procedere per veloci tagli trasversali, a bilanciare l’evanescente leggerezza di tante sue composizioni, sembra infatti lo stesso visto in tanti suoi bassorilievi di soggetto religioso. Le forme circolari tornite nella materia lucida del bronzo si ripropongono con pari generosità nelle linee morbide dei disegni, negli sfumati, nel tratto caldo delle matite grasse, nelle sbavature delle acquetinte sulla carta porosa (Gli amanti, 1979). Allo stesso modo i segni più nervosi e calligrafici sono come i profili taglienti della sue figure aguzze, istericamente impettite nella fissità ieratica delle pose cardinalizie e qui invece slabbrate nei veloci corsivi ad inchiostro di abbracci e nudità dischiuse e candidamente ostentate (Ballerina , 1957). È sempre il nudo femminile al centro della rappresentazione: ritratto ora in amplessi appassionati,
Parla una lingua antica -il latino preconciliare, diceva Argan- la scultura del maestro bergamasco: nelle sue fonti d’ispirazione convivono, di là da ogni accademismo, i graffiti preistorici e la pittura vascolare greca, Giotto e Piero della Francesca, Rodin e Matisse. Ballerine, spogliarelliste, ninfe e modelle affollano una galleria di ritratti e pose dal sapore antico e insieme estremamente moderno in cui la coscienza del presente, al pari che la consapevolezza del passato, risponde ugualmente ad un sentimento del mondo privo di filtri. Che sia l’odore acre del letto di Venere o il profumo immacolato di un armadio da sacrestia.
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