Nella sua ultima produzione,
Andrea Di Marco (Palermo, 1970) presenta una serie di “
paesaggi antropizzati”, come li definisce la curatrice Helga Marsala. Gli oggetti che l’artista sceglie per i suoi quadri abitano i luoghi che racconta: da austeri e indiscreti protagonisti, svelano la dignità del quotidiano, quei momenti “invisibili” perché familiari a un occhio frettoloso.
Sono particolari raccolti attraverso scatti fotografici e poi rielaborati da una pittura asciutta e raffinata. Relitti di una civiltà del cemento, del non-senso culturale, scorci di periferia che testimoniano un tempo di solitudini, di vuoti: “
Mi piace pensarmi come un collezionista di scarti, tentando di circoscrivere un fenomeno”, dichiara l’artista siciliano. “
Sono figli nostri, intendo quegli oggetti-soggetti che si legano al paesaggio e che io fotografo, estraggo, dipingo e quindi non dimentico, sia per fare un dispetto alla globalizzazione sia per quel sentimento di riconoscenza, di aspettativa enigmatica, di quell’imperscrutabilità che si rivela a volte come una metafora dell’incertezza del vivere”.
Una pittura intensa,
severa e nostalgica dà voce a un immaginario insolito, forse proprio perché
comune e mortale, espressione che dà titolo alla mostra, per diventare subito metafora di quella “
fragilità necessaria”, chiarisce Helga Marsala, “
che mantiene gli oggetti dipinti da Di Marco sul ciglio della sparizione”. Una stufa, una sedia, una scala, un panno appeso, un utensile da giardino illustrano una realtà che sonnecchia ai margini, fatta di silenzi: qui la presenza dell’uomo è bandita, mentre la luce scandisce momenti del giorno che, come in un loop al rallentatore, si ripetono identici a se stessi.
Una musica di carillon, ipnotica e melanconica (composta ad hoc da
Vincenzo Schillaci) descrive ciclicamente – in uno dei due spazi che articolano il percorso espositivo – il momento di eterna stasi in cui è abbandonata la giostra barocca ritratta nella grande tela
Chewingum. Un’immagine insolitamente carica di oggetti che, in modo discreto ma deciso, comunicano la propria presenza muta, riempiendo la parte inferiore della scena; il colore lucido, quasi laccato, si allontana dalle tonalità pastello tanto familiari a Di Marco, rafforzando comunque quell’atmosfera di sospensione comune a tutte le opere in mostra. Gli oggetti del quotidiano che popolano l’immaginario dell’artista, una volta
estratti dalla realtà, acquistano una nuova natura e, trasposti su tela, trovano una dignità diversa.
Una poltrona di tela fiorata (
Seduta), una delle gozzaniane “
buone cose di pessimo gusto” che abitano le scene dipinte da Di Marco, è rischiarata dal bianco pastoso del fondo e da una luce che, diffusa tutt’intorno, conferisce eleganza alla scena. Il bagliore generale allontana la poltrona dal contesto in cui è inserita – estremamente reale nella minuziosa rappresentazione del dettaglio – per trasformarla in immagine transitoria, metafora d’un pensiero che, citando ancora la curatrice, racconta “
oggetti che somigliano a idee”.
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Mostra bellissima ed emozionante, bellissimo l'audio creato ad hoc!