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Questo ricordo che non ricorda nulla è il ricordo più forte”: le parole di Dino Campana, che in una frase tagliente restituiscono il senso di certi struggimenti emotivi, fanno da orizzonte concettuale al progetto catanese di
Diego Perrone (Asti, 1970; vive ad Asti e Berlino)
. Nulla di più straziante, dunque, di quei ricordi sporti sul nulla, dissolti nel tempo incerto di una scena divenuta umore, di un gesto associato a un odore, di un accadimento tramutatosi in nostalgico abbandono. Un ricordo che non ricorda niente ma che mantiene, prepotente, il segreto dell’evocazione.
Perrone, figura assolutamente originale nel panorama artistico italiano, utilizza la scultura come collettore di memorie percettive, cassa di risonanza per materia visiva o sonora rappresa in una forma instabile. L’immagine mentale di luoghi, oggetti, paesaggi si fa corpo fisico che abita e altera il luogo, macchina processuale con cui restituire, sotto forma d’astrazione, il sapore concreto ma indistinto del reale.
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Una mucca senza faccia rotola nel cuore si assiste alla messa in scena di una trasposizione poetica: un luogo che diventa suono, un suono che diventa oggetto, un oggetto che modifica lo spazio. Il ricordo, qui, assume l’irruenza e la struttura di un evento sonoro: il rumore causato da una frana è tutto ciò che resta di un’esperienza dentro il paesaggio. Attraversare le pendici dell’Etna, per esempio, e lasciare che l’eco di un incidente geologico funga da landmark uditivo, traccia identitaria sedimentata durante l’esperienza del viaggio.
Ma si tratta solo di fiction, di immaginazione. La memoria è falsa, o magari è solo un fatto di premonizione, di proiezione in avanti. Perrone gioca con il fenomeno del ricordo e si inventa un proprio residuo paesaggistico, ricostruendo in studio il suono, come se davvero ne avesse ancora addosso la vibrazione. Il rumore della frana, in quanto prodotto digitale, racconta però un attraversamento ideale: imitando il meccanismo mnemonico-sinestetico, l’artista sperimenta una condizione teorica, non più meramente soggettiva. L’artificio come garanzia di universalità.
Fulcro del progetto è un oggetto scultoreo ingombrante, quasi minaccioso. Sette cilindri neri in vetroresina sono collegati come a formare un tunnel, iperbolico strumento musicale. Gli altoparlanti nascosti all’interno diffondono il rumore cupo da un capo all’altro del grande spazio industriale, saturandolo come materia densa, corposa eppure invisibile. Una frana immaginaria e la sua eco. Tutto qui. Potentissima apparizione, più vera del vero.
Altre due sculture affiancano la grande macchina sonora. Creature un po’ zoomorfe, un po’ tendenti all’astrazione, un po’ narrative, un po’ surreali, sospese fra natura e architettura, cambiano senso e aspetto a ogni spostamento dello sguardo. Sono anch’esse paesaggio, a modo loro. Bordi, crinali, lembi di prato, cime svettanti, mucche al pascolo, rocce franate e orizzonti arrotolati intorno alla visione. Porzioni di veduta o di camminamento, che trovano posto e forma in fondo alla scultura, nell’infinito farsi dell’opera e nel suo non significare null’altro che “racconto”, infedele trasposizione del reale o, meglio, del suo ricordo. Quello più forte, più sotterraneo, più impreciso.