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20
ottobre 2010
fino al 31.X.2010 Luca Trevisani Favignana (tp), Ex Florio
sicilia
Una residenza d'artista sull'isola di Favignana. Esperimenti sulla praticabilità della scultura (nonché della vita) al tempo presente. In un luogo dominato dalle leggi imponderabili del mare...
Il lavoro di Luca Trevisani (Verona, 1979; vive a Berlino) è un progetto incompiuto di archeologia del presente. Le sue opere, però, non sono decantazioni di rimossi e rifiuti contemporanei, né assemblaggi risignificati volti a smentire misticismi e costrutti ideologici della civiltà in cui le cose si consumano. Sono invece aggregati eterogenei di materia emancipata dal peso che fa dell’oggetto uno strumento, un serbatoio di significati e sovrastrutture culturali, un cadavere semiotico tenuto in vita da umane prospettive funzionali.
Così, se qualcosa è rinvenuto, non è a seguito di abbandono o esaurimento. Perché non è del reperto in sé che si serve l’artista, ma del corpo solido inteso nella sua componente prelogica, nella sua identità fluida al di là di ogni stima cartesiana di consistenza. Implode la categoria del dismesso. Svanisce in retorica l’argomento del realismo.
Se è ancora possibile generare un’immagine efficace, è a costo della sua dis-ontologizzazione. Se di un oggetto è possibile fare scultura, è assumendone l’incollocabilità nel sistema razionale del linguaggio.
All’interno dell’ex stabilimento Florio di Favignana – antica tonnara dismessa, oggi trasformata in museo – il tempo presente indicativo ha il tono dell’azzardo: il relitto di un progetto industriale di inizio Novecento, potente e vetusto, racconta le atmosfere di una contemporaneità in cui l’incertezza sopravanza un’ormai sopita sicurezza, fondata sulla ragione e sul perseguimento dell’obiettivo.
La Fondazione Sambuca segna qui una nuova tappa di un ciclo di residenze d’artista, che ha prima visto protagonista il Laboratorio Saccardi e che ha poi coinvolto Trevisani, già vincitore del Premio Furla (2007) e del Premio New York (2009). A cura di Paolo Falcone, >100°C verte attorno al tema dell’acqua e della fluidità, in stretta connessione con il genius loci, non solo in termini di prelievo dei materiali. Il titolo stesso fa riferimento alla temperatura di ebollizione dell’acqua, dunque all’inizio della sua sparizione.
Le forme alludono forse a un’ancora, a un boomerang, a una vela: strumenti efficienti in cerca di equilibri dinamici con il vento, le onde, la sabbia. Elementi tubolari divelti, frammenti di legno, forme astratte e loro negativi disegnati nel gesso, calchi di vuoti effimeri praticati nell’informità della sabbia come fossero antiche fusioni di bronzo.
Scrive Helga Marsala nel testo critico che correda la mostra: “La scultura, allora, come corpo vivo. Il suo modo di respirare è il suo modo di inciampare, inevitabilmente, nella propria mutevolezza imperfetta, nel proprio tendere verso un azzeramento che è andare incontro all’informe, al temporaneo, all’istantaneo”. In questa nullificazione assurta ad archetipo si consuma l’ossimoro di un’immagine che si ritrae all’imperativo etico dell’affermare. Rappresenta una storia non lineare e non progressiva, il tempo di un’esperienza del disastro, per dirla con le parole di Maurice Blanchot: “Preoccupazione per l’infimo, sovranità dell’accidentale. Il negativo non viene dopo l’affermazione (affermazione negata), ma è in rapporto con ciò che vi è di più antico”.
Nel lavoro di Luca Trevisani si scorge il senso di un’unica, delirante prospettiva. Quella di un presente senza compimento possibile.
Così, se qualcosa è rinvenuto, non è a seguito di abbandono o esaurimento. Perché non è del reperto in sé che si serve l’artista, ma del corpo solido inteso nella sua componente prelogica, nella sua identità fluida al di là di ogni stima cartesiana di consistenza. Implode la categoria del dismesso. Svanisce in retorica l’argomento del realismo.
Se è ancora possibile generare un’immagine efficace, è a costo della sua dis-ontologizzazione. Se di un oggetto è possibile fare scultura, è assumendone l’incollocabilità nel sistema razionale del linguaggio.
All’interno dell’ex stabilimento Florio di Favignana – antica tonnara dismessa, oggi trasformata in museo – il tempo presente indicativo ha il tono dell’azzardo: il relitto di un progetto industriale di inizio Novecento, potente e vetusto, racconta le atmosfere di una contemporaneità in cui l’incertezza sopravanza un’ormai sopita sicurezza, fondata sulla ragione e sul perseguimento dell’obiettivo.
La Fondazione Sambuca segna qui una nuova tappa di un ciclo di residenze d’artista, che ha prima visto protagonista il Laboratorio Saccardi e che ha poi coinvolto Trevisani, già vincitore del Premio Furla (2007) e del Premio New York (2009). A cura di Paolo Falcone, >100°C verte attorno al tema dell’acqua e della fluidità, in stretta connessione con il genius loci, non solo in termini di prelievo dei materiali. Il titolo stesso fa riferimento alla temperatura di ebollizione dell’acqua, dunque all’inizio della sua sparizione.
Le forme alludono forse a un’ancora, a un boomerang, a una vela: strumenti efficienti in cerca di equilibri dinamici con il vento, le onde, la sabbia. Elementi tubolari divelti, frammenti di legno, forme astratte e loro negativi disegnati nel gesso, calchi di vuoti effimeri praticati nell’informità della sabbia come fossero antiche fusioni di bronzo.
Scrive Helga Marsala nel testo critico che correda la mostra: “La scultura, allora, come corpo vivo. Il suo modo di respirare è il suo modo di inciampare, inevitabilmente, nella propria mutevolezza imperfetta, nel proprio tendere verso un azzeramento che è andare incontro all’informe, al temporaneo, all’istantaneo”. In questa nullificazione assurta ad archetipo si consuma l’ossimoro di un’immagine che si ritrae all’imperativo etico dell’affermare. Rappresenta una storia non lineare e non progressiva, il tempo di un’esperienza del disastro, per dirla con le parole di Maurice Blanchot: “Preoccupazione per l’infimo, sovranità dell’accidentale. Il negativo non viene dopo l’affermazione (affermazione negata), ma è in rapporto con ciò che vi è di più antico”.
Nel lavoro di Luca Trevisani si scorge il senso di un’unica, delirante prospettiva. Quella di un presente senza compimento possibile.
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mostra visitata il 25 settembre 2010
dal 25 settembre al 31 ottobre 2010
Luca Trevisani – >100°C
a cura di Paolo Falcone
Ex Stabilimento Florio delle Tonnare di Favignana e Formica – 91023 Isola di Favignana (TP)
Orario: da venerdì a domenica ore 18.30-23
Ingresso libero
Info: tel. +39 0923 808111; info@fondazionesambuca.org; www.fondazionesambuca.org
[exibart]
Mi ricordano i ritrovamenti sotto la fiera Frieze proposta da Fujiwara. Questa però mi sembra un archeologia più autentica; in fujiwara tutto era finto. In ogni caso si tratta di semplici assemblaggi definiti secondo un gusto personale. Un dadaismo di ritorno??? Se chiedo a mio fratello di fare una mostra di arte moderna io credo che lui faccia questo. Chi è l’artista oggi? Che funzione ha l’arte oggi? Qual’è il valore di questi assemblaggi in libertà? Non dovrebbe l’arte contemporanea ripensare ad una nuova etica? Il rischio sembra sempre quello di essere difronte all’ennesimo titolo gonfiato della Parmalat.
“Il lavoro di Luca Trevisani (Verona, 1979; vive a Berlino) è un progetto incompiuto di archeologia del presente. Le sue opere, però, non sono decantazioni di rimossi e rifiuti contemporanei, né assemblaggi risignificati volti a smentire misticismi e costrutti ideologici della civiltà in cui le cose si consumano..”: sorry? “Sono invece aggregati eterogenei di materia emancipata dal peso che fa dell’oggetto uno strumento, un serbatoio di significati e sovrastrutture culturali, un cadavere semiotico tenuto in vita da umane prospettive funzionali..”: aiuto!
“Così, se qualcosa è rinvenuto, non è a seguito di abbandono o esaurimento. Perché non è del reperto in sé che si serve l’artista, ma del corpo solido inteso nella sua componente prelogica, nella sua identità fluida al di là di ogni stima cartesiana di consistenza. Implode la categoria del dismesso. Svanisce in retorica l’argomento del realismo..”: posso avere un bicchier d’acqua? non mi sento molto bene..
“Se è ancora possibile generare un’immagine efficace, è a costo della sua dis-ontologizzazione. Se di un oggetto è possibile fare scultura, è assumendone l’incollocabilità nel sistema razionale del linguaggio..”: mi arrendo, esco subito e mi compro la Gazzetta dell Sport!
addio..
“aggregati eterogenei di materia emancipata dal peso che fa dell’oggetto uno strumento, un serbatoio di significati e sovrastrutture culturali, un cadavere semiotico tenuto in vita da umane prospettive funzionali.”
Perchè il peso fa dell’oggetto uno strumento? Ma cosa state dicendo?
Ogni assemblaggio, dalla cultura dadaista in poi, può presentare decine e decine di significati e rimandi culturali. Il segno non è mai un cadavere. E in ogni caso quali sono le umane prospettive funzionali? Mi viene in mente solo la galleria d’arte per questi semplici assemblaggi materici…e poi ci lamentiamo dei tagli alla cultura?
Non capisco chi ha sparato più ca….e, se trevisani o chi ha recensito la mostra.
qualcuno sa trovarmi il filo logico del lavoro di trevisani..diciamo partendo dal premio fuffa in poi. sconcertante
NOTO SU EXIBART, che ogni commento critico su una mostra o su un “artista” – è sempre proteso ad una critica frivola o meramente benevole. Mi sorge il sospetto che si dia più spazio alla visibilità dell’artista, che ad un concreto approfondimento di tematiche sulla contemporaneità. In altre parole, il rapporto tra il linguaggio dei segni, l’etica dell’artista e i luoghi del potere politico e culturale. In ciò, non c’è nessuna idea o impegno di mantenere l’arte al di fuori di questi meccanismi. L’idea dadaista di un arte che supera i luoghi deputati del potere è stata accantonata per abbracciare solo le regole che impone l’afasia del successo commerciale. In fondo tutti questi pseudo “ready made”, o assemblaggi di rifiuti od altro, esposti nei cosiddetti (contesti artistici), rappresentano il “non sense” di una cultura mercificata che ha tradito i postulati etici ed anti-artistici del dadaismo, che ha sempre privilegiato una ricerca di linguaggi, al di fuori di “contesti artistici”, gestiti dal potere economico e politico. Dal momento che i dadaisti avevano sostituito l’opera con la vita stessa, mi domando, come mai si continua con questa nenia del luogo deputato all’arte o contesto artistico a stabilire il valore, la bellezza il gusto?
Vid dico solo questo, questo artista NEW DADA ha vinto il premio Furla 2007 per la giovane arte italiana…pensate come siamo messi in italia…
a me sembra cristian frosi…italo zuffi…etc..etc… tutti la stessa mercieria pescata fuori dall’europa e portata come nuova e firmata in italia.