Un esercito di anime ferree a salvaguardia di una croce incastonata nell’ovatta: è questo il punto di snodo mediano nella struttura narrativa che si dipana rutilante tra i resti della Chiesa della Vittoria e l’Oratorio dei Bianchi. Falange irremovibile, unico rimando a fattezze corporee umane, seppur geometriche e filiformi. Sono queste le abbozzate sagome dell’umanità invocata e raccontata da Franco Politano nella sua installazione “Apriti Cielo”, curata da Giacomo Fanale.
Il destino presagibile dell’uomo, l’indarno desiderio di riscatto, la possibilità di rivalsa costruiscono la sintassi narrativa del progetto dell’artista catanese, novena senza tempo perché trasversale alla storia dell’umanità.
Ad essere districato è Il viaggio interiore dell’uomo affetto dall’espiazione di una colpa originaria, il disagio inflitto tra pari in una lotta che la storia delle civiltà ha reso ineguale. Nel varco dischiuso da Politano si descrive un destino universale reiterato dal tempo, che ancora una volta rivive nei simboli di un tracciato iconografico imperituro, che funziona per rimandi e valenze paradigmatiche.
La Porta dell’Accoglienza segna una prima sosta in questo cammino, presentandosi come controparte della lignea Bab el Fotik, reliquia di uno scontro tra civiltà diverse che, tuttavia, hanno insieme contribuito a definire l’identità di Palermo e del quartiere in cui sorge il complesso monumentale che ospita l’installazione.
L’Eletta, la Kalsa, era infatti la roccaforte dell’Emiro e delle sue truppe, tessuto viario fitto e intricato, popolato da costruzioni serrate e appena toccate dal sole. Qui si ergeva la porta araba che nel 1071 sancì l’ingresso dei Normanni in Sicilia, la disfatta dei Saraceni guidata da Ruggero il Guiscardo, quel mischiarsi di tradizioni e saperi che hanno foggiato le stratificazioni culturali della città.
Ad incorniciare il viaggio interiore attraverso i meandri di un’umanità oltraggiata, il candore degli stucchi del Serpotta, in cui la figura umana scolpita e sacralizzata è alter ego dell’assenza corporea che Politano sceglie per evocare la presenza dell’uomo come fulcro del suo discorso.
Franco Politano, Verso nuovi orizzonti, 2017, materiali diversi
Bab el Fotik, porta della sconfitta (o della vittoria), fronteggia l’uscio ferreo puntellato di spuntoni aggettanti, soglia dell’accoglienza e passaggio preliminare al cielo d’ovatta che, poco più avanti, domina dall’alto l’astante umanità levigata e lattea, la nostra corporea presenza. A quel cielo trapunto di chiavi, moltiplicazione dei biblici cardini del Paradiso, si può levare un’univocità di affidamento, consegnare il carico del proprio doloroso viaggio personale, che diventa anelito unanime. Il plenario percorso espiatorio, già reso esplicito dall’imponente corona di spine che domina il portico d’accesso all’oratorio, procede in un percorso di eloquente ascesa.
Il passaggio da questo piano a quello superiore è popolato dalla milizia posta a guardiania di una croce senza Cristo, trafitta da un martello su cui è visibile la sola traccia sanguinolenta della mano agente. Poi ancora una soglia, la Porta degli Angeli, passaggio obbligato verso la redenzione e simbolo della via d’accesso a un’esistenza spirituale interiore. Attraverso il piumaggio non più niveo, ma nero e gommoso, è per antitesi sottilmente rievocata l’identità del luogo, che porta nel suo nome il riferimento al colore bianco del saio della confraternita laicale che lo fondò. Dedita a sostenere moralmente i condannati alla pena capitale, ancora una volta la struttura che ospita l’installazione è perfettamente integrata nella narrazione che procede al piano superiore.
Qui, lo smarrimento dell’umanità intera è nello stuolo di scarpe che costella l’oratorio, tutte dirette verso l’altare e inquadrate dalla presenza assiale di una croce formata da tronchi di alberi mozzati. Le radici prepotenti marcano le fondamenta di una cristianità autentica in cui i nostri stessi passi s’inseriscono, sancisce i rudimenti di una civiltà primigenia che lega l’uomo a un’unica appartenenza e ad una genesi univoca. Nella sala successiva, tale sentimento sarà consacrato da Politano all’auspicio di una croce contenente una molteplicità di “cristi”, la diversificazione di cui l’umanità vive, pur sempre sotto l’insegna di una sola adesione al rispetto dell’altro e ad un originario senso di fratellanza. Le scarpe sono indizi di individualità negate, la loro moltiplicazione li rende simulacri capaci di dichiarare la dimensioni originarie da cui derivano, capaci quindi di liberare la differenza e ammettere ogni identità come effetto di una somiglianza.
Il percorso culmina in una poliedrica coesistenza di materiali di riuso assemblati in forme d’ali: metalli, ferro, camere d’aria, palme; costellazioni angeliche di un relitto marittimo entro il quale è tracciato il solco di un corpo. Ancora una volta la vita umana è celata, resta come residuo, è consegnata all’immortalità di un’oggetto scultoreo, alla trasformazione di un corpo in recipiente capace contenere anche dell’altro. L’uomo così evocato non è nient’altro che una sintesi in cui il corpo è una cosa sola con le proprie proiezioni, il suo dissolversi è funzionale alla percezione.
L’artista catanese vota dunque l’intero progetto espositivo ad un materialismo soggetto a una qualche ontologia, tracciando la storia dell’umanità attraverso un tempo che, come nella concezione bergsoniana, è intimamente legato alla coscienza, soggiacente ad una soluzione di continuità che si risolve in crescita spirituale.
Nell’abissalità sorgiva della memoria del destino umano, s’innesta la denuncia di Politano, un inno all’umanità impotente che assume la forma di una folgorazione mnemonica intensissima e vivida.
Giuseppina Vara
mostra visitata il 7 giugno
Dal 7 giugno al 7 ottobre 2018
Franco Politano, Apriti Cielo
Oratorio Dei Bianchi, Via Dello Spasimo
Palermo
Orari: da martedì a venerdì: 09.00 – 18.00, sabato e domenica: 09.00 13.00