Undici statue invisibili. Undici presenze trasparenti, tradite da futili dettagli: ciabatte e cappelli lasciano intuire le sagome scolpite nel volume denso dell’assenza.
Gino De Dominicis, poeta dell’invisibilità e dell’immortalità, le esponeva nel ‘79 alla Galleria Pieroni di Roma.
Oggi l’artista-performer
Milena Muzquiz (Tijuana, 1974; vive a Los Angeles e Palermo) – con
Martiniano López Crozet fondatrice dei
Los Super Elegantes – si cimenta in un confronto con il marchigiano, praticando l’arte raffinata e insidiosa della citazione, l’esercizio retorico della didascalia e un certo frammentato autobiografismo.
Avverso a ogni forma di riproduzione della sua opera, De Dominicis aveva costruito la radicalità del suo pensiero giocando con l’aria, la sparizione, il nascondimento, l’idea d’infinito. Ed eccolo, adesso, ricomparire nell’atto ironico di Muzquiz, che ricostruisce una “statua invisibile” utilizzando alcuni effetti personali: un cappellino rosso e un paio di decolleté bianche a spillo. Sul muro, un accattivante e dinamico lettering: “
questa è un’opera di De Dominicis, a me piace da morire, per questo ne ho fatta una per me. L’unica cosa diversa sono le scarpe e il cappello”. L’unica cosa diversa: ossia, paradossalmente, tutto quello che c’è. Ma se l’effettiva concretezza dell’opera cambia, è l’idea a restare invariata, la sua ossatura concettuale. Muzquiz se ne appropria, si veste di quell’assenza, se la cuce addosso e ci gioca, fino a renderla “cosa sua”.
In questa direzione si muove tutta la mostra. La scrittura, adesiva o scultorea, è didascalia che non si stacca dal senso del lavoro ma anzi lo definisce, lo orienta. Così è per
Memoria di una notte alcolica, in cui le lettere scivolano a terra, barcollanti e molli. Una massa informe dipinta di nero poggia su un mobile bar, pezzo di modernariato di gusto pop: il nucleo magmatico, che della succitata notte porta con sé tutto il caos e la vertigine, piomba come ingombrante ricordo sul luccicante oggetto domestico.
Costruire il pieno col vuoto:
Trovato in fondo al mare è una piccola torre in ceramica ricoperta di gusci di crostacei e conchiglie, involucri vacanti usati come tasselli evocativi. Un soprammobile kitsch o un feticcio pagano con cui catturare la potenza degli oceani? Tra estetica postmoderna e incursione nel barocco siciliano, fa capolino la logica della stratificazione e della contaminazione.
Vuoto che ritorna, ancora, intrecciato al ricordo: come nella sound
track che riempie la stanza di voci e rumori d’ambiente, registrati durante una vecchia performance; o come nella stampa in edizione limitata che (non) invita il pubblico a una pièce teatrale per sedie vuote. Lo show, negato allo sguardo, è già condannato alla propria sparizione.
Ancora pesantezza e levità, assenza e presenza, nella sculturina
Luce pesante, una vecchia lampada da tavolo da cui sgorga un fascio di materia solida, lattiginosa. La luce s’è fatta corpo, tempo cristallizzato, misura reale del trascorrere dei giorni: l’immaterialità del raggio elettrico acquista il peso di una quotidiana storia personale, memoria aerea inesorabilmente rappresa.
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noiosissima.
bravissima