Forse è il suo più celebre scatto. Milano, 1954: una giovanissima e allora quasi sconosciuta Moira Orfei cammina imperiosa per le strade del centro. Poco è lasciato all’immaginazione dei presenti. Le generose forme della domatrice di leoni non sfuggono alla fitta schiera di soli uomini che si voltano sorridenti e compiaciuti al suo passaggio, in un fuoco di sguardi incrociati. Gli Italiani si voltano decise di titolare Mario De Biasi (Sois, 1923) quella sua fotografia in cui è condensato un aspetto della storia del costume dell’Italia degli anni Cinquanta: uno spaccato spiritoso e penetrante di umanità meneghina d’ispirazione zavattiniana, nell’idea di un reportage “a pedinamento” realizzato per la rivista Bolero Film.
Ma De Biasi non è, o almeno non è soltanto, un fotografo di costume. Ricordarlo per la sua pur notissima ripresa della Orfei, significherebbe fare un torto alla lunga attività di reporter per il settimanale Epoca; di infaticabile e curioso cronista, nel senso più stretto dell’accezione, di colui cioè che va, e arriva prima, là dove la notizia richiede una presenza vigile e scrupolosa. Americhe, Estremo Oriente, Africa Nera, Europa dell’Est, il Mediterraneo: il fotografo bellunese non si è mai tirato indietro, anche a costo della sua vita, come quando, con suo gran rammarico, venne lodato in copertina dal direttore di Epoca per il rischioso reportage sul terremoto del Belice nel ‘68: un’angosciante sequenza di scatti in presa diretta che raccontano con discrezione, ma partecipata passione, il dramma umano dell’immane catastrofe naturale.
E proprio con un omaggio alla Sicilia del secondo dopoguerra si apre questa prima importante rassegna che Palermo dedica a De Biasi, già presentata lo scorso gennaio a Los Angeles e qui arricchita di nuovi importanti pezzi, che restituiscono la qualità e il rigore di una fotografia di servizio, animata ogni volta però da una sensibilità che va ben oltre il solo mestiere e rivela sempre l’emozione e l’impegno di una professione intensamente vissuta.
Basta del resto scorrere il lungo curriculum per rendersi conto di come fotografia e vita si siano sempre intrecciate nel bel racconto per immagini in bianco e nero cui si affida la retrospettiva palermitana: dieci sale per 175 fotografie in tutto, lungo oltre trentasei anni di attività, raccolte in nuclei tematici e cronologici ben precisi.
I ritratti -Hithcock, Morandi, Chagall, Guttuso, Manzù, Mishima-, le città -Los Angeles, New York, Copenhagen, Leningrado, Hong Kong, Bangkok, Tokyo-, la cronaca –Budapest nel 1956 e i terremoti-, la natura -mediterranea, delle polari steppe siberiane o delle rigogliose regioni sudamericane- fino a più meditate e autonome ricerche, che si possono senza enfasi definire artistiche per la piena capacità di comunicazione poetica di riflessioni maturate attraverso il mezzo della riproduzione analogica. La serie de L’orto delle Bambole, risultato di due diverse campagne fotografiche effettuate nei dintorni di Milano e Roma nel ’70 e nel ‘72, riprende l’abitudine contadina di utilizzare vecchie bambole rotte infilzate sui campi come spaventapasseri. Atroce cimitero all’aria aperta di reietti miracolosamente sopravvissuti al doloroso corso della Storia.
davide lacagnina
mostra visitata il 10 dicembre 2004
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