È piazza. È vaso. È bocca. È ventre materno. È abbraccio. È cratere e casa. È prigione. È luogo di accoglienza e di riparo. È un mondo chiuso e aperto allo stesso tempo: circoscritto, ampio, circolare. È navicella sospesa, fluttuante nello spazio. È materia terrigna radicata al suolo. È oggetto totemico attorno al quale ritrovarsi come tribù. Evoca tutto questo la geometrica, essenziale e potente scenografia abitata de La giara che l’artista catanese Roberto Zappalà ha immaginato per la sua versione coreografica della novella di Pirandello (progetto commissionato dal Teatro Regio di Torino con l’abbinamento dell’opera lirica di Mascagni, Cavalleria rusticana). La giara non è più l’oggetto di scena ma è la scena stessa.
Dentro l’oggetto del titolo non c’è solo l’anziano conciabrocche Zi’ Dima del racconto, rimasto intrappolato nell’atto di riparare il grande manufatto di terracotta perché rottosi, ma c’è un mondo intero di uomini, di “masculi”, di quel mondo contadino e mediterraneo descritto da Pirandello, personaggi della luminosa terra siciliana evocata anche dai bellissimi e colorati costumi di Veronica Cornacchini, aderenti ai corpi, ispirati ai disegni delle ceramiche artistiche di Caltagirone: un vero trionfo di fantasia!
Undici danzatori barbuti si muovono in scena quasi sempre all’unisono. Inizialmente nel silenzio e nella penombra avanzano chini a terra, ansimanti, coperti da una stoffa scura. Si ergono, quindi, alla luce, non appena s’accorda la musica dell’orchestra (direzione di Andrea Battistoni). Alla costante coralità alternano il formarsi di coppie, di terzetti, quintetti, movenze da marionette, e corse circolari, andamenti sinuosi, rigidi, ritmati, che seguono la partitura musicale. Solo brevi stacchi di qualcuno di essi, per sostare sul bordo dell’enorme scena astratta riproducente la bocca della giara. Dalla piccola altura, distendendovisi, egli osserva ciò che si muove all’interno del bianco spiazzo, guarda il mondo fuori, oltre, per rientrare nella dinamica del gruppo.
Zappalà rifugge il folklore, la narrazione lineare, il gesto didascalico. Il suo segno contemporaneo c’è tutto nel rendere visibile, nella precisione dei ritmi e degli accenti, la musica di Alfredo Casella (il balletto omonimo debuttò a Parigi nel 1924 con la coreografia di Jean Börlin e i costumi disegnati da De Chirico) che ricorda certe sonorità stravinskiane del Sacre. E credo non a caso, forse suggestionato da esse, Zappalà abbia immaginato il trambusto che anima il racconto, come il rito di una tribù di soli uomini che basta a se stessa.
A essi, alla loro radice virile e rurale, emblema della violenza maschile nei confronti dell’universo femminile, qui assente dal rito, il coreografo catanese attribuisce anche la menzogna. Mette loro in mano dei sottili e lunghi coni che, nella danza clownesca, manovrano in nasi, orecchie e cappelli come tanti Pinocchi burlanti e bugiardi. Si danno la mano ballando in cerchio mentre la luna di un anello luminoso attraversa l’intera scena che, infine, sarà invasa da un’improvvisa cascata, sui loro corpi, di olive verdi. Immobilizzando quella danza liberatoria.
Da citare tutti i danzatori della Compagnia Roberto Zappalà: Adriano Coletta, Filippo Domini, Rubén García Arabit, Alberto Gnola, Marco Mantovani, Gaetano Montecasino, David Pallant, Junghwi Park, Adriano Popolo Rubbio, Dario Rigaglia, Erik Zarcone. (Giuseppe Distefano)